L’inno di Mameli, una marcetta che scalda i cuori solo allo stadio…
Si è tornato a parlare dell’inno nazionale italiano, il Canto degli italiani, meglio noto come l’inno di Mameli o addirittura Fratelli d’Italia, il 7 dicembre scorso, quando si è aperta con le note dell’inno di Mameli diretto da Daniel Barenboim la stagione 2014/2015 che si è inaugurata con il Fidelio di Beethoven. Sul palco reale in prima fila il presidente del senato Pietro Grasso e il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia con le mogli. Presente il ministro della Cultura Dario Franceschini. L’unica cosa divertente è che dal dopoguerra a tutti gli anni Novanta un certo di tipo di sinistra che ha sempre schifato ogni simbolismo di tipo nazionale e patriottico oggi si trova a dover fingere di apprezzare queste liturgie – diciamolo – un po’ passatiste.
Fu adottato nel 1946 come provvisorio….
Il nostro inno infatti ha proprio origini risorgimentali: per la prima volta in assoluto fu eseguito nel 1847 a Genova, il 10 dicembre, e sia le parole sia la musica erano opera di due genovesi: Goffredo Mameli e Michele Novaro. Pare che questa marcetta, giudicata da tutti i musicofili ridondante e sciatta, andasse per la maggiore nell’Ottocento, ma fino al 1946 non fu mai inno nazionale. Nel 1861 lo divenne la Marcia Reale, conservata anche durante il ventennio fascista, quando veniva eseguita nelle occasioni ufficiali. A essa, nel ventennio citato, si affiancava e spesso si sovrapponeva Giovinezza, l’inno ufficiale del Partito nazionale fascista. Si utilizzava anche l’Inno a Roma di Puccini. L’inno ottocentesco, dalle parole arcane, dovrà aspettare sino al novembre 1946 prima che un ministro della Guerra massone e repubblicano, Cipriano Facchinetti, lo facesse adottare dalla Repubblica italiana. Tra l’altro gli fu dato il nome ufficiale di Canto degli italiani e non Fratelli d’Italia, perché “fratelli” ci si chiamavano tra loro i massoni… L’inno di Mameli è dunque piuttosto giovane nella sua veste ufficiale: quelli del Perù o del Costarica o di Haiti sono tutti antecedenti. Per non parlare di quelli europei, il cui record di antichità appartiene alla trascinante Marsigliese di Rouget de Lisle, adottata addirittura nel 1795, poco dopo la Rivoluzione. Certo, ormai siamo abituati, soprattutto nei santuari del pallone, a sentire l’inno di Mameli prima o dopo una competizione, ma è indiscutibile che non abbia nulla della solennità o della bellezza, ad esempio, del Canto dei Tedeschi, la cui melodia fu composta da un certo Joseph Haydn, e che è l’inno della Germania ininterrottamente dal 1922. Oppure di God save the Queen (King) inglese, la cui musica fu anche adottata per un certo periodo dalla Russia imperiale, con parole ovviamente diverse. God save the Queen è stato l’inno ufficiale, in tempi diversi, di ben 75 nazioni. Non si sa chi l’abbia composta né quando, è stata adottata in modo consuetudinario e non ufficiale (all’inglese, insomma) intorno alla metà del 1700. Ed è certo più bello dell’inno di Mameli.
Perdiamo il confronto con gli inni degli altri Paesi
Così come più belli sono gli inni americano (Star spangled banner del 1931), canadese (O Canada del 1980, quando sostituì God save the Queen), belga (La Brabançonne del 1860) e anche quello israeliano, solenne e triste (Hatikva del 1948). Un inno nazionale dovrebbe rappresentare qualcosa per la popolazione che lo adotta, suscitare delle emozioni profonde attraverso il testo e la musica. Questo l’inno di Mameli non lo fa: è retorico, patriottardo, criptico, ridondante, ottocentesco (e questo è giustificato). E allora, abbiamo il coraggio di cambiarla, questa marcetta: nella patria di Verdi e di Puccini, di Mascagni e di Boito, di Donizetti e di Leoncavallo, questo non dovrebbe essere poi così difficile. Inoltre, come quasi tutto in Italia, questo inno-marcetta è ancora provvisorio. Sì, insomma, un po’ come la Repubblica…