Il Signore degli Anelli, 60 anni fa il debutto. Storia di un capolavoro incompreso

15 Dic 2014 13:05 - di Redattore 54

Sessanta anni fa – era il 1954 – usciva nelle librerie il capolavoro di J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli. Una favola cristiana, come ebbe a sottolineare lo stesso autore, ma che allo stesso tempo riprendeva motivi epici e mitologici che per Tolkien, raffinato filologo che amava le pagine di Beowulf e di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, erano pane quotidiano dei suoi studi. Favola cristiana ma anche architrave letteraria del genere fantastico, responsabile per di più di quella rivalutazione del Medioevo che dagli anni Ottanta è stata caratteristica dell’immaginario europeo (benché il Medioevo del Signore degli Anelli sia atemporale e senza luogo, pura proiezione evocativa).

Il successo negli Stati Uniti e la traduzione di Alliata

Tolkien lavorava al progetto dal 1936, ma il libro vide la luce appunto nel 1954. Il successo arrivò una decina di anni dopo quando i contestatori hippy degli Stati Uniti adottarono Frodo e Gandalf facendone i simboli della ribellione antisistema. In Italia il primo volume dell’opera venne edito nel 1967 dalla casa editrice Ubaldini-Astrolabio, per la traduzione di una giovanissima Vittoria Alliata. Quest’ultima scambiò con Tolkien una serie di lettere per avere lumi sul significato profondo dell’opera e – intervistata dal Secolo nel 2008 – sottolineò che per l’autore il personaggio centrale dell’opera era Sam Gamgee che, per la sua umile dedizione alla causa del Bene è addirittura assimilabile a Maria Vergine (e non a caso Sam è l’unico sul quale il potere malefico dell’Anello non ha effetto).

La destra adotta gli Hobbit, la sinistra è diffidente

Solo nel 1974 la casa editrice Rusconi lancerà sul mercato tutti e tre i volumi e tre anni dopo fu la destra giovanile ad adottare Gandalf e gli Hobbit come incarnazione di una comunità differente di cui i valori dell’amicizia, del coraggio e dell’eroismo erano substrato etico.  Continuava così quello che lo stesso Tolkien definiva “il mio deplorevole culto”. Molto si è favoleggiato su questa presunta strumentalizzazione da parte della destra dei personaggi tolkieniani. L’operazione fu resa possibile dal disinteresse della cultura di sinistra verso una letteratura giudicata poco impegnata ed “escapista”, lontana dai criteri dell’ortodossia marxista (per il marxismo l’arte ha una genesi storica, teoria lontanissima da quella del poeta come sub-creatore che venne invece formulata da Tolkien). Era evidente che un professore di Oxford che studiava l’antica lingua anglosassone e scriveva fiabe non aveva affinità con la sinistra impegnata e rivoluzionaria.

Esce il film nel 2002 e prende il via la rivalutazione

Quando uscì il primo film della saga firmata dal regista Peter Jackson lo strepitoso successo del Signore degli Anelli indusse la sinistra a qualche ripensamento. All’epoca il manifesto e Liberazione scrissero addirittura che gli Hobbit erano una sorta di guerriglieri contro la globalizzazione. Dal canto suo Avvenire invitava i credenti ad andare all’assalto della Terra di Mezzo. Una guerra di appropriazione che oggi non ha più senso. A due giorni dall’uscita nei cinema dell’ultimo capitolo della trilogia The Hobbit Tolkien è ormai patrimonio di tutti, la sua favola epica sullo scontro tra bene e male è racconto globale, adattabile ad ogni latitudine, ma il suo fascino è come sessant’anni fa antidoto al piatto razionalismo, anelito di spiritualità, narrazione che “consola” e illumina secondo il senso più profondo della poetica tolkieniana. E la sua Terra di Mezzo resta il luogo della bellezza del creato da salvaguardare da tutte le ombre (nulla a che vedere, sia detto per inciso con il “mondo di mezzo” di recenti inchieste inopportunamente accostate a Tolkien da certo giornalismo sciatto e un po’ cialtrone).

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