22 anni fa l’omicidio di Beppe Alfano, giornalista missino sempre “contro”

8 Gen 2015 17:46 - di Antonio Pannullo

La storia sta rendendo giustizia a Beppe Alfano, il giornalista assassinato dalla mafia l’8 gennaio del 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. Negli anni immediatamente successivi al suo omicidio di lui quasi non si poteva parlare, era un  morto scomodo, da dimenticare. E per due motivi: innanzitutto perché aveva toccato e stava indagando su certi argomenti intangibili: mafia, appalti, corruzione, malaffare, politica, massoneria. Questo è uno dei motivi, che in Sicilia – ma anche altrove – hanno sempre rappresentato un ostacolo all’accertamento della verità. L’altro motivo è rappresentato da quello che nei decenni scorsi era considerato un vero handicap, quasi una tara morale, per un italiano: l’essere missino, “fascista”, come si apostrofavano allora tutti quelli che non fossero omologati al pensiero unico della sinistra. E Beppe lo era, con tutta l’anima. Aveva incanalato la sua voglia di scoprire la verità, di essere controcorrente, di seguire percorsi alternativi, di essere insomma una “pecora nera”, dapprima con la sua militanza in Ordine Nuovo, movimento al quale peraltro appartenevano molti giovani della provincia di Messina, e poi con la sua militanza nel Movimento Sociale Italiano, alla cui Federazione provinciale allora appartenevano uomini come Totò Ragno, Mimmo Nania, Peppino Buzzanca, Umberto Pirilli, calabrese ma che fu consigliere comunale anche a Messina, e molti altri.

Politica e giornalismo, due strade in salita

Beppe Alfano era inserito a pieno titolo nella comunità missina di Barcellona e del Messinese, ma la sua grande passione, oltre alla politica, era il giornalismo, nel quale coniugava la lotta al malaffare e alle cosche tipiche dell’opposizione della fiamma tricolore. Così, iniziò a collaborare con emittenti locali, come Radio Tele Mediterranea, che contribuì a fondare, e con il quotidiano La Sicilia di Catania, oltre che con altre testate minori. Era sempre a caccia della notizia, certo molte volte dette fastidio ai poteri forti, fino a che, quella sera dell’8 gennaio di 22 anni fa, fu chiamato da qualcuno che gli voleva parlare. Scese da casa, prese la sua automobile, e andò a questo appuntamento con un interlocutore misterioso nella vicina via Marconi, al centro di Barcellona. Lo ritrovarono esanime in automobile, una Renault 9, con i fari accesi e il motore imballato, perché non aveva potuto togliere il piede dall’acceleratore. Fu ucciso da tre proiettili di una calibro 22, e nessuno aveva visto né sentito nulla. La politica e il giornalismo, come le intendeva lui, erano strade difficili, e la sua indisponibilità a cedere a qualsiasi compromesso ne hanno decretato la fine. Era del 1945, non è arrivato a cinquant’anni. Ma né la sua famiglia, in particolare la figlia Sonia, né la sua comunità militante lo hanno mai dimenticato. E solo in questi anni stanno giungendo, tardivamente, i riconoscimenti da parte anche di quelle istituzioni e partiti che allora lo lasciarono solo.

Il ricordo dei giovani e della Regione siciliana

Il giornalista è stato ricordato dai giovani del liceo classico Luigi Valli di Barcellona in un incontro-dibattito alla presenza della famiglia. Nel pomeriggio si è svolta la messa di suffragio nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pozzo di Gotto e la successiva deposizione della corona d’alloro sul luogo dell’omicidio, in via Marconi. Anche il presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, ha ricordato Alfano: «Sono passati 22 anni dall’omicidio di Beppe Alfano, ma il ricordo del suo impegno e del suo lavoro sono rimasti indelebili nella memoria e nella storia della Sicilia. Alfano – ha aggiunto – ha rappresentato l’informazione libera che non teme la mafia e i poteri forti, che li racconta e li denuncia malgrado le difficoltà di vivere in territori difficili. La mafia ha sempre avuto paura della cultura e dell’informazione che rendono i cittadini consapevoli e questo lo riscontriamo ancora oggi. Sono tanti i cronisti minacciati per via delle loro inchieste, costretti in alcuni casi a vivere sotto scorta e, in un Paese normale, tutto questo non dovrebbe accadere».

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