Alberto Giaquinto, ucciso a 17 anni per aver ricordato Acca Larenzia

10 Gen 2015 17:43 - di Antonio Pannullo

10 gennaio 1979. Gli anni di piombo non sono ancora finiti. Quel giorno Acca Larenzia fa la sua quinta vittima, Alberto Giaquinto, un giovane 17enne. Sì, quinta, perché qualche mese dopo quel 7 gennaio 1978, il papà di Francesco Ciavatta, uno dei tre ragazzi assassinati, si era tolto la vita non potendo sopportare il dolore per la scomparsa tragica del suo unico figlio. Giaquinto, lo abbiamo ricordato tante volte, era un ragazzo di Ostia, convinto militante del Fronte della Gioventù, che frequentava anche i gruppi dell’Eur e del Fuan. Il papà Teodoro, farmacista, non mancava mai di far avere il suo contributo alla sezione missina di Ostia. Alberto era un ragazzo come tanti, studiava, sentiva la musica, ma soprattutto aveva scelto di fare politica dalla parte difficile, contro il sistema, per migliorare questo nostro disgraziato Paese. Ma erano pochi a pensarla come lui, e i giovani missini erano sistematicamente bersagliati dalla violenza e dall’intolleranza delle sinistre, il cui odio era attizzato da grandissima parte delle istituzioni e persino dalle inchieste che la magistratura metteva su per ricostituzione. Intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti, poi, facevano la loro parte, etichettando come negativo tutto quello che non fosse politicamente corretto e di sinistra. Così quella sera Alberto va con un gruppo di camerati a fare una manifestazione, in occasione del primo anniversario di Acca Larenzia, per protestare contro il fatto che le indagini sulla strage non sono andate avanti. La manifestazione, ovviamente era stata come sempre vietata dalla questura per motivi di ordine pubblico. Va ricordato che in quegli anni il 90 per cento delle manifestazioni del Msi e del FdG venivano regolarmente vietate, quasi sempre arbitrariamente. Nel caso in cui fossero consentite, le sinistre ne organizzavano altre nelle immediate vicinanze, così da costringere le forze dell’ordine a intervenire contro i soliti fascisti provocatori. Era passato in Italia il messaggio che la presenza stessa di un anticomunista fosse una “provocazione”, solo le sinistre potevano parlare ed esprimersi. Nelle scuole, nelle università, in piazza, nel luoghi di lavoro. Ma molti ragazzi non ci stanno, non accettano queste dittatura, decidono di difendere la loro libertà.

La manifestazione di Centocelle

Così, malgrado l’ennesima pretestuosa proibizione, i ragazzi decidono di tenere lo stesso la protesta, e lo fanno davanti a una sede della Democrazia cristiana – partito in prima fila contro la destra – nel difficile quartiere di Centocelle, roccaforte rossa sin dai tempi della guerra. Quartiere però dove a ogni campagna elettorale il deputato romano Giulio Caradonna non rinunciava a fare un comizio in piazza del Mirti, più per difendere il diritto della fiamma di esprimersi che per ragioni elettorali. E ogni volta erano incidenti. Quel 10 gennaio 1979 invece incidenti non ce ne furono, perché la protesta dei giovani missini fu rapida e veloce. Ma mentre i ragazzi se ne stavano andando a piccoli gruppi, arriva alle spalle di due di questi un’auto-civetta nella polizia, una 128 bianca, con due agenti in borghese, uno dei quali, Alessio Speranza sparò contro i due ragazzi che si allontanavano, disarmati, colpendo Alberto Giaquinto alla nuca. Vicino a lui c’era Massimo Morsello, che cercò di soccorrerlo ma inutilmente, perché la ferita era troppo grave. Dopo 25 minuti arriva l’ambulanza e porta via Alberto che cessa di vivere dopo poche ore. Fu allora che il regime “democratico e antifascista”, come amava ripetere, mostrò il suo lato peggiore: per giorni e giorni si disse, grazie ai giornali allineati, che Alberto era armato, per giorni si rifiutò di dire il nome dell’agente che aveva sparato, si dettero più versioni contrastanti dei fatti, chi andava a testimoniare veniva denunciato per manifestazione non autorizzata e altro. Insomma, una autentica vergogna. Se la verità è emersa, lo si dovette alla determinazione del papà di Alberto, Teodoro, che volendo sapere come fosse stato ucciso il figlio, con l’ausilio di uno studio di investigazioni private, scoprì tutto: che i ragazzi erano disarmati, che nessuno aveva minacciato la polizia, che i due giovani si stavano allontanando, tutte cose poi confermate dagli esami scientifici.

Memorabile j’accuse di Almirante in aula

E lo si dovette anche a un memorabile intervento in aula di Giorgio Almirante, il 22 gennaio successivo, che mise sotto accusa il sistema e rivelò quello che il ministro dell’Interno non voleva rivelare. Il segretario del Msi ricordò che era stata chiesta l’autorizzazione per un corteo silenzioso guidato dai parlamentari, per ricordare la strage di Acca Larenzia, ma che anche questa richiesta fu respinta, dopo giorni di attesa, dalla questura di Roma. Dopo il duro discorso di Almirante, che chiese «il rispetto dei nostri eroici ragazzi», per la prima volta anche la stampa italiana iniziò a dubitare della versione assurda della questura. Tra l’altro, fu disposta anche una perquisizione in casa Giaquinto alla ricerca di una fantomatica arma, che ovviamente non fu trovata. La verità alla fine emerse, ma giustizia non fu fatta. Il poliziotto responsabile prese solo sei mesi per eccesso colposo di legittima difesa.  Anni dopo lo Stato fu costretto a riconoscere un indennizzo alla famiglia, cosa che equivale a un’ammissione di colpa. La famiglia ovviamente lo rifiutò, e i soldi furono utilizzati per la tomba di dove oggi riposa Alberto. Questa ennesima, e dolorosa, rievocazione è necessaria perché sia chiaro chi esercitava e da dove provenivano violenza e intolleranza. E per conservare la memoria storica di una generazione che combatté per i propri ideali alle generazioni che verranno, affinché esse imparino a non credere sempre alla maggioranza faziosa, alla vulgata corrente, al politicamente corretto, alla cultura omogenea. Esiste anche la verità storica dei fatti. E la vicenda di Giaquinto ne è uno dei esempi più calzanti. Il cantautore Michele Di Fiò, scomparso recentemente, gli aveva dedicato una bella canzone, Italia, che riproponiamo. Due anni fa, grazie anche all’impegno della comunità militante di Ostia, ad Alberto è stato dedicato un giardino pubblico. Sarà l’inizio della memoria condivisa?

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