Charlie Hebdo? No, è Jan Palach il vero cuore di quell’Europa mai nata
Charlie Hebdo? Preferiamo Jan Palach, che si sacrificò per i propri ideali di libertà. Il 19 gennaio 1969, dopo tre giorni di agonia durante i quali rimase sempre cosciente, Jan Palach moriva. Al suo funerale c’erano 600mila persone, venute da tutta la Cecoslovacchia. Jan Palach, il cui nome oggi è finalmente conosciuto in tutto il mondo dopo decenni di sordina imposta dall’Unione Sovietica e dall’Occidente che non voleva dispiacerle, era uno studente ventenne di filosofia che scelse la strada dell’auto immolazione per protestare contro quanto stava avvenendo nel suo Paese. Disse che aveva preso esempio dai monaci buddisti che si davano alle fiamme per protestare contro il regime liberticida comunista cinese e contro la politica antibuddhista di molti regimi del sudest asiatico come il Vietnam. Tuttavia fu la prima volta che un simile suicidio rituale veniva attuato in Occidente. Jan Palach poi fu il primo: una serie di giovani praghesi, sette per la precisione, seguirono il suo esempio nelle settimane successive, e otto anni dopo il gesto fu ripetuto da un giovane francese, Alain Escoffier, che si bruciò davanti la sede dell’Aeroflot a Parigi per protestare contro l’Urss.
La Primavera di Praga soffocata nel sangue
Palach aveva seguito con interesse la Primavera di Praga, pensando che la cortina del silenzio e della repressione comunista potesse essere sollevata. Ma quando l’esercito sovietico, insieme con quelli dei Paesi del Patto di Varsavia (con l’eccezione della Romania di Ceausescu, che si rifiutò di intervenire), entrarono in Cecoslovacchia, la speranza di libertà venne brutalmente soffocata, così come era avvenuto per l’Ungheria nel 1956. In Cecoslovacchia però fu più dura: l’Urss mandò nel Paese qualcosa come mezzo milione di soldati e settemila tra carri armati e blindati, una forza sproporzionata per una nazione che non raggiungeva neanche i 15 milioni di abitanti. Le 11 divisioni dell’esercito regolare cecoslovacco furono schierate ai confini con la Germania Ovest, per impedire che da lì potessero giungere aiuti alla popolazione. Nei mesi successivi si stima che almeno trecentomila cecoslovacchi abbandonarono il loro Paese. Il numero delle vittime civili non fu mai accertato, ma si pensa che fossero qualche centinaio. La Cecoslovacchia rimase occupata dai sovietici fino al 1990, alla vigilia della caduta del Muro. Caduta che in sintesi non fu altro che l’onda lunga delle primavere politiche dei Paesi dell’Est Europa. E sempre in quell’anno il presidente cecoslovacco Vaclav Havel gli dedicò una lapide nel luogo del suo sacrificio, piazza san Venceslao. Dopo la caduta del comunismo tutte le città d’Europa gli dedicarono una strada, una piazza, un giardino: a Roma è al Villaggio Olimpico, nel quartiere Flaminio, dove ogni anno, dal 1969 al 1990, solo una sparuta pattuglia di giovani missini rendeva omaggio all’eroe sconosciuto e volutamente dimenticato dal media internazionali. La targa che lo ricorda è stata più volte danneggiata e distrutta dagli antifascisti.
Francesco Guccini lo ricordò in “Due anni dopo”
Tra i pochissimi che ricordarono Palach prima della caduta del Muro va citato senz’altro Francesco Guccini che, nella sua canzone Primavera di Praga (del 1970 ma registrata nell’autunno del 1969) lo paragona a Jan Hus, il pensatore boemo bruciato sul rogo per eresia nel 1415. Negli anni Settanta i gruppi alternativi italiani Zpm (Primavera 68) e la Compagnia dell’Anello (Jan Palach) gli dedicano una canzone, e negli anni recenti il cantautore milanese Skoll compone per lui un brano dal titolo Le fate di Praga. All’estero, il giovane martire è stato ricordato da una canzone, già nel 1969, del cantautore belga Salvatore Adamo, Vorrei morire tra le tue braccia («c’è chi muore in Primavera come una torcia, sbarrando la strada per un attimo ai carri armati…») e dal gruppo inglese Kasabian nel pezzo Club foot. Ma prima, e per vent’anni, il suo corpo rimase sepolto in un angolo del cimitero di Praga. Senza nome.