Per Greta e Vanessa violata la legge, con il piccolo Augusto fu linea dura…
16 Gen 2015 16:53 - di Luca Maurelli
Nessuno le avrebbe volute ancora in ostaggio dei rapitori o magari decapitate in un video, sia chiaro. Ma un po’ di sincerità in più sul riscatto pagato dall’Italia per la liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, da parte del governo, sarebbe stata gradita, visto che ai tempi del governo di centrodestra non mancarono le critiche della sinistra proprio sullo scivoloso tema del pagamento di soldi per la libertà dei nostri connazionali (ricordate le due Simone?). Oggi per le due ragazzine italiane rilasciate in Siria si parla di dodici milioni di dollari, la polemica infuria, le accuse di non aver dedicato la stessa attenzione anche alla vicenda dei due marò italiani si sprecano. Ma c’è un punto delicato in tutta questa vicenda che non riguarda né il finanziamento del terrorismo, né la disinvoltura con cui certi nostri connazionali vanno all’estero a seminare pacifismo in zone di guerra, né tantomeno la miopia del governo Renzi sugli “ostaggi” italiani. C’è un punto che riguarda la legge italiana.
La legge non è uguale per tutti
Se per assurdo Greta e Vanessa fossero finite nelle mani dell’Anomima Sequestri Sarda, invece che dell’Isis, sarebbero ancora prigioniere: la magistratura, infatti, avrebbe impedito il pagamento del riscatto bloccando i beni dei parenti e qualsiasi tipo di sostegno finanziario da parte di parenti o istituti di credito. Tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, infatti, in Italia esplose il fenomeno dei sequestri di persona da parte della ‘Ndrangheta e dell’Anonima Sarda: le vittime erano in genere membri di famiglie benestanti del nord e i rapiti venivano trasportati e custoditi per mesi in caverne o sulle montagne dell’Aspromonte o del Gennargentu. Uno dei sequestri più lunghi e drammatici fu quello di Cesare Casella, che durò 700 giorni e si concluse con la liberazione dell’ostaggio. Ma in tanti altri casi i rapiti non rividero mai la porta di casa.
La svolta con il sequestro De Megni
Il sequestro che segnò una svolta nell’approccio “politico” con il fenomeno dei sequestri fu però quello di Augusto De Megni, un bambino di dieci anni nipote di un famoso banchiere perugino. Il 3 ottobre del 1990 Augusto venne prelevato dalla villa di famiglia, alle porte di Perugia, dove si trovava solo con il padre, Dino, e fu portato in una grotta nei pressi di Volterra, dove vi rimase per 110 giorni. Dopo più di un mese, l’Anonima Sequestri si fece viva chiedendo un riscatto di 20 miliardi di lire. Ma proprio quell’anno, per mettere un freno all’ondata di sequestri, il governo approvò un decreto per il sequestro preventivo dei beni delle famiglie dei rapiti (Decreto Legislativo n. 8, del 15 gennaio 191 convertito con la Legge n. 82 del 15 marzo del 1991). La stessa famiglia De Megni provò a ricorrere in giudizio contro quella legge per poter pagare il riscatto, ma fu bloccata. Per fortuna la vicenda si concluse con un epilogo positivo e la liberazione del ragazzo, dopo 113 giorni di prigionia (foto). Il business dei sequestri è per l’isis quello che fino a qualche anno fa era il modus operandi dell’Anomina Sarda, che tra il 1966 ed oggi ha ricavato centinaia di miliardi dai riscatti, con oltre 130 sequestri, e non sempre ha restituite gli ostaggi vivi, idem per i calabresi. Quelle norme esistono ancora, ma forse non valgono se gli ostaggi sono nelle mani dei terroristi e lo Stato – come sostengono i ribelli – decide di pagare. Quindi, ancora una volta, la legge non è uguale per tutti, che strano.