La Cina fa shopping in Italia: dalle Telco all’energia, fino al lusso

16 Feb 2015 16:57 - di Roberto Frulli

Banche, aziende energetiche di fondamentale importanza strategica, colossi delle telecomunicazioni, grandi società del comparto assicurativo, gruppi specializzati nella produzione di infrastrutture, imprese storiche del food e prestigiosi marchi del lusso e di alta gamma. Eccolo lo shopping cinese in Italia. Una marcia lenta ma inesorabile verso il business italiano per accaparrarsi i pezzi più pregiati. Obiettivo: fare man bassa di marchi e partecipazioni del Made in Italy. Razziare, attraverso l’acquisizione industriale ma anche l’acquisto di partecipazioni azionarie, i gioielli di famiglia italiani. E tornare a casa con un bel bottino pagato, tutto sommato, ragionevolmente.
E l’Italia come risponde? Gettate alle ortiche le perplessità sulle continue violazioni dei diritti umani, sugli abusi, sulle violenze compiute in Tibet, sulla corruzione che è parte integrante del tessuto burocratico cinese, sulle condanne a morte eseguite in maniera seriale – nel 2007 si stimava far le 5.000 e le 6.000 portate a termine in appena 12 mesi – il bel Paese sembra non vedere l’ora di vendersi ai cinesi. Che vanno via dal supermarket Italia con la borsa della spesa colma di ogni ben di Dio.

Lo shopping oculato della Cina sul mercato italiano

Attenzione: gli acquisti cinesi non sono assolutamente indiscriminati, non sono, insomma, lo shopping compulsivo del cafone arricchito che spende e spande a destra e a manca, pur se la ricchezza improvvisa, che caratterizza i nuovi ricchi cinesi, ricorda un altro scenario, a noi più vicino, che era quello dei magnati russi diventati improvvisamente plurimiliardari in seguito al collasso della Madre Russia. Dunque gli acquisti cinesi sono, con tutta evidenza, parte di una strategia più ampia che va a concentrarsi su determinati mercati verticali, per una ragione o per l’altra.
Il settore certamente più delicato è quello delle utilities e delle aziende energetiche e infrastrutturali. Come in un gigantesco Risiko, i cinesi hanno piazzato le proprie fiches su Enel, Eni, Terna e Snam di cui hanno acquisito quote di partecipazione attorno al 2 per cento. Quanto basta per far suonare il campanello d’allarme. Nei primi mesi del 2014 la Banca centrale cinese investe 2,1 miliardi per acquistare il 2,1 per cento di Eni ed Enel. Agli inizi dell’estate l’altro colpaccio: il 35 per cento di Cdp Reti passa ai cinesi di State Grid International Development Limited società interamente controllata da State Grid Corporation of China (con un capitale di 24 miliardi di euro) dietro all’esborso di 2 miliardi di euro. Chi è Cdp Reti? La società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti che ha in pancia il 30 per cento di Snam e il 29 per cento di Terna.

Telco, energia, lusso i mercati italiani nel mirino della Cina

Nella politica di acquisizioni di Pechino non può mancare una realtà come Ansaldo Energia, leader nelle costruzione di centrali elettriche. E, infatti i cinesi di Shanghai Electric se ne accaparrano una quota del 40 per cento dietro al pagamento di 400 milioni di euro. Ma già Finmeccanica sta trattando per la cessione ai cinesi di Ansaldo Breda e di Ansaldo Sts, quindi costruzione di treni e sistemi di segnalamento ferroviario.
Ma il pregiato shopping di Pechino in Italia punta anche su altre realtà. Come, per esempio, il mondo Telco. Sempre con una quota del 2 per cento la Bank of China si insedia in Telecom. Come finiscono quote, sempre attorno al 2 per cento, di Prysmian, leader mondiale nel settore di produzione di cavi elettrici, per le telecomunicazioni e di fibre ottiche. E ancora: un’altra quota attorno al 2 per cento consente l’acquisto di una partecipazione di Pirelli cavi e, altrettanto, per Fiat Chrysler. Con il 2 per cento gli uomini di Pechino entrano anche in Generali. Un’altra fiches del valore del 2 per cento la finanza con gli occhi a mandorla la piazza su Mediobanca.
Ma sbaglierebbe chi pensasse che sono solo le aziende strategiche a far gola a Pechino. Finiscono in mano cinese anche quelle della moda e del lusso. Come Roberta di Camerino, la storica griffe italiana fondata, nel dopoguerra, dalla nobildonna veneta Giuliana Coen. Stessa sorte per Krizia, per Giada, il marchio fondato dalla stilista Rosanna Daolio, per Miss Sixty.

Dalla moda ai cantieri navali, così comprano i cinesi in Italia

E, nel mercato d’alta gamma, i cinesi si accaparrano altri marchi prestigiosi. Non sempre con risultati felici. Nel 2012 il controllo del 75 per cento dello storico marchio italiano e maggior produttore mondiale di super yachts Ferretti passa di mano ai cinesi di Shig-Weichai. Un’operazione fotocopia di quella avvenuta in Gran Bretagna con gli yachts Sunseeker passati anch’essi al gruppo cinese Dalian Wanda. Dopo un paio d’anni i cinesi di Shig-Weichai decidono di smobilitare alcuni cantieri della Ferretti provocando l’ira dei sindacati e dei lavoratori passati dal sogno cinese all’incubo. La vicenda si conclude con un accordo fra azienda e sindacati: i cantieri restano dov’è ma alcuni lavoratori finiscono in Cassa Integrazione.
E il nome di Dalian Wanda torna prepotentemente a farsi sentire nel febbraio di quest’anno quando si scopre che il colosso immobiliare cinese, di cui è proprietario il magnate Wang Jianli (nella foto), ex-ufficiale dell’esercito cinese (come molti di questi finanzieri e imprenditori che si stanno mangiando a bocconi sempre più grossi l’Italia) si è comprato il 68,2 per cento di Infront Media, (la società svizzera del nipote del presidente Fifa Sepp Blatter) vale a dire i diritti televisivi della Serie A di calcio mettendo sul tavolo 1,19 miliardi di euro.
Wang Jianli, terzo uomo più ricco della Cina, ha già fatto la spesa in giro per l’Europa e anche negli Stati Uniti: possiede il 20 per cento dell’Atletico Madrid e la catena statunitense di sale cinematografiche AMC Theatres and Poole.
Tutta questa attenzione della Cina per l’Italia sta progressivamente facendo drizzare le antenne all’intelligence italiana che cerca di capire dove vanno a parare tutte queste acquisizioni, se c’è una strategia complessiva per mettere le mani su settori strategici e, soprattutto, fino a dove arriverà.

L’allarme degli 007 per le infiltrazioni nel tessuto economico

Nei primi mesi del 2013 l’intelligence italiana mette sul chi vive il governo per quella che appare una chiara e ben pianificata infiltrazione dei cinesi nel mercato italiano. Gli 007 mettono nero su bianco alcuni casi particolarmente curiosi. Primo fra tutti un interesse per alcune speculazioni immobiliari che prendono di mira alcune aree particolari sfruttando la criticità dei bilanci comunali. Si parla, per esempio, della riconversione delle aree ex-Falck di Sesto San Giovanni. L’interesse è tale che, per supportare adeguatamente l’aspetto finanziario della vicenda, Bank of China si impegna ad aprire una filiale del proprio istituto proprio lì.
Anche l’acquisto del gruppo Ferretti mette sul chi va là gli analisti dell’intelligence italiana. Che preconizzano con raro acume quello che si sta per avverare: «l’intenzione di delocalizzare la produzione dei natanti». Il rischio è la sottrazione di tecnologie e know how.
Altrettanto preoccupati gli 007 italiani lo sono per l’annuncio che l’agenzia di rating cinese Dagong, global credit rating, della controllata europea Dagong Europe, arma strumentale per Pechino per la ricerca e valutazione di fattibilità degli investimenti in Italia sta per aprire un’agenzia a Milano.
Un anno e mezzo dopo, nel settembre del 2014, un nuovo report dei Servizi d’intelligence italiani alla vigilia del viaggio in Cina di Matteo Renzi cristallizza tutta la preoccupazione degli 007 per le scalate cinesi in Italia. Gli analisti fanno notare a Renzi che l’interesse dei cinesi per le aziende italiane è fortissimo ma è altrettanto forte il rischio di demandare il controllo di settori strategici a Pechino. Di fare insomma attenzione a non svendere la capacità tecnologica e di business tutta italiana per fare cassa.

Commenti