Quei legami impensabili tra ebrei e fascismo nel saggio di Vincenzo Pinto

17 Feb 2015 14:49 - di Lando Chiarini

È esistito un legame insospettabile tra ebraismo ed i regimi politici egemoni in Italia e Germania tra le due guerre mondiali, cioè fascismo e nazismo. A scriverne è lo storico Vincenzo Pinto nel saggio In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento, edito da Le Lettere (pagine 200, € 16,50). La vera sorpresa riguarda il regime hitleriano. In sede storica, infatti, l’antisemitismo di Mussolini e del fascismo appare (ed oggettivamente è) qualcosa di “aggiunto”, anzi di imposto dalla realpolitik dell’asse con la Germania, seguito al progressivo allontanamento dell’Italia dalle democrazie occidentali. Nelle premesse “ideologiche” del fascismo l’antisemitismo non c’era e questo spiega perché vi aderirono sin dalle origini moltissimi israeliti. Lo stesso Mussolini, già dai tempi della sua direzione dell’Avanti!, aveva coltivato una profonda relazione con l’ebrea Margherita Sarfatti che s’interruppe solo con l’adozione da parte del regime delle leggi razziali.

l’adesione al fascismo di Ovazza, ebreo e mussoliniano

Nella galleria di personaggi passati in rassegna da Pinto, l’unico ebreo italiano citato nel saggio è il banchiere torinese Ettore Ovazza, che resterà fascista e mussoliniano fino alla fine. Rifiutò di emigrare persino dopo l’introduzione delle leggi razziali. La fedeltà al Littorio, tuttavia, non gli salvò la vita. Ovazza, infatti, morì ucciso dalle SS il 9 ottobre del ’43 a brevissima distanza dal confine svizzero. Decisamente più complessi sotto l’aspetto delle motivazioni psicologiche sottese alla volontà di trovare un modus vivendi se non un’intesa vera e propria tra ebrei e “destra” sono personaggi come Vladimir Ze’ev Jabotinsky, fondatore della destra sionista ed ammiratore di Mussolini, con cui ebbe anche rapporti politici. Jabotinsky (definito da Pinto “re senza corona”) morì nel 1940 a New York senza vedere le atrocità dei lager nazisti né la nascita dello Stato di Israele. Oppure come Isaac Kadmi-Cohen, ebreo polacco trapiantato in Francia, che si definiva di sinistra in merito alla politica interna ma di destra rispetto a quella internazionale. Teorizzò la nascita di un unico stato in medioriente per tutti i semiti. Ma l’aspetto più singolare della sua visione consiste nell’avversione radicale per gli Stati Uniti, in particolare per «quel materialismo di cui è emblema una semplice banconota: il dollaro». Coltivò un ambizioso progetto che consisteva in una federazione di Stati europei imperniata sull’asse Berlino-Parigi. Kadmi-Cohen non muta pensiero neppure di fronte all’impetuosa avanzata delle aquile hitleriane ed alla caduta della Francia. Ai suoi occhi, il nazismo rappresenta la possibilità per porre fine alla diaspora degli ebrei. E non disdegna di trattare con il governo collaborazionista di Vichy affinché ordinasse l’espulsione di massa degli israeliti in alternativa allo sterminio. Morirà lo stesso in un campo di sterminio.

L’israelita Schoeps voleva fare un accordo con Hitler

Un posto a parte merita Abba Achimeir o Gaissinovic, autore nel 1928 di Cronache di un fascista pubblicate sul giornale revisionista Doar Hayom. Achimeir fu lettore ed interprete di Oswald Spengler, l’autore del Tramonto dell’Occidente e, soprattutto, ammiratore di Mussolini da lui definito come il vero erede di Mazzini e Garibaldi. A teorizzare addirittura l’incontro tra ebraismo e nazismo fu invece l’ebreo tedesco Hans Joachim Schoeps. Nel 1933 Schoeps tentò di ottenere il riconoscimento dall’allora nascente regime hitleriano proponendo l’epurazione «dall’interno» delle comunità israelitiche. In pratica voleva separare dagli ebrei tedeschi quelli sionisti ed orientali ritenuti perciò «insani». Il nazismo lo perseguitò ugualmente e poté ritornare in Germania solo dopo la sconfitta tedesca. Nel ’70 pubblicò Bereit für Deutschland (Pronti per la Germania), una raccolta di scritti per difendersi dall’accusa di essere stato un «ebreo nazista». Non rinnegò nulla – precisa Pinto – ma seppe distinguere il conservatorismo prussiano, di cui fu fervente sostenitore, dal nazismo. Il primo produsse la rivoluzione conservatrice, il secondo una «rivoluzione popolare e razziale» partorita dalla violenza della modernità.

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