La guerra al Califfato in Libia, punto per punto quello che nessuno dice

17 Feb 2015 17:42 - di Mario Aldo Stilton

Tripoli bel suol d’amore… Cominciamo a mettere alcuni punti fermi sulla questione Libia. Prima che l’eccitazione divenga isteria e che la paura muti in terrore, mettere in chiaro alcune questioni non è affatto male. Anzi, può aiutare a capire, a districarsi tra le mille interpretazioni e i distinguo che ci bombardano la mente tutti i santi giorni.

Punto primo:

I miliziani del Califfato. Siccome non sono funghi, ma esseri umani, per quanto con atteggiamenti più simili alle bestie (senza offesa per le bestie, ovviamente), questi seguaci libici di Al Baghdadi non sono spuntati per caso. E nemmeno all’improvviso. Sono semplicemente il frutto velenoso della politica estera occidentale. Anzi, americana. Furono gli americani di Barack Obama, quello dello “yes, we can” tanto caro a Veltroni, a decidere che in Siria era arrivato il momento di sbarazzarsi di Basir Al Assad e di foraggiare con uomini e mezzi e dollari la rivolta armata contro il regime. La replica dell’errore di Bush con Saddam Hussein. E furono, così,  gli stessi americani a favorire l’arrivo di ben cinquemila combattenti libici nella zona di Aleppo a sostegno della rivolta. Ebbene, dopo qualche anno, questi combattenti hanno fatto rientro in patria portando con se l’idea del Califfato insieme alla capacità di imporre la legge delle armi. Morto Gheddafi la Libia non regge più e per loro è facile insediarsi a Derna e cercare di occupare anche Sirte: zone di dominio delle tribù del Colonnello che oggi forniscono braccia e motivazioni ai seguaci del Califfo. Che non sono né tanti né imbattibili. Ovviamente nulla o pochissimo di quanto sopra potrete leggere sui giornaloni nostrani;

Punto secondo:

La diplomazia impotente. Al netto delle elevate capacità e delle qualità dei nostri diplomatici e dei nostri servizi operanti in quell’area, nessuna azione diplomatica può davvero portare a risultati concreti se è lasciata sola, se non ha l’appoggio costante del Governo. E il governo di Fonzie Renzi era più impegnato a blaterare di riforme, a varare la legge elettorale e a intervenire con decreti sulle succose Banche popolari: troppo per poter guardare con la dovuta attenzione alla Libia. Al massimo abbiamo delegato l’Eni e i suoi dirigenti a tirar fuori i dollari necessari a pagare le milizie islamiste antigovernative istallatesi a Tripoli per consentire che la produzione di greggio non si interrompesse. Dulcis in fundo, la richiesta di discussione urgente avanzata da Egitto e Francia alle Nazioni Unite. E noi? Perché non è stata l’Italia ad avanzare la richiesta? Come mai noi, che siamo attori principali dell’area, abbiamo lasciato che fosse proprio la Francia, che ha dirette e gravissime responsabilità nella attuale situazione di caos, a rivolgersi all’ONU?  Figura più ridicola non avremmo potuto fare. Sempre nel silenzio totale della nostra libera informazione;

Punto terzo:

Il dramma dei disperati in fuga. Tutti hanno raccontato della motovedetta italiana della Guardia Costiera in acque territoriali libiche aggredita da scafisti armati di Kalashnikov che chiedono e ottengono la restituzione dei barchini pieni di disperati che i nostri stavano soccorrendo. Qui la questione si fa complessa. Che ci faceva infatti una motovedetta italiana in acque territoriali libiche? Chi ce l’ha inviata? Perché? Ed è possibile e logico che dei militari italiani siano aggrediti da quattro banditi armati su di un barchino e che cedano alle loro spavalde richieste? Si salvano vite umane, si dirà. Ma se siamo nelle acque territoriali libiche e  se bastano quattro canaglie armate a metterci paura non si tratta di salvataggio. No, è che ci hanno presi per un taxi del mare: li imbarcano sulle loro spiagge, mezz’ora di navigazione, trasbordo sulle nostre navi con assistenza e restituzione delle barche per il prossimo viaggio. Questa non è solidarietà. È stupidità al cubo. Ma anche di ciò nessuno dice. Nè scrive.

 Punto quarto:

Cinquemila uomini pronti alla guerra. Da impiegare sul campo. No, si, forse. Vedremo. Col governo Renzi abbiamo avuto una ulteriore conferma del nostro essere indeterminati a tutto. Quasi un marchio di fabbrica. Così abbiamo visto due ministri, degli Esteri e della Difesa, sparare opinioni a raffica attraverso tv e giornali. E, subito dopo la reazione via internet del Califfato, divenire afoni. Silenti. Con il premier costretto a spiegare e precisare. Nulla di nuovo sotto il sole di Roma. La rottamazione non ha intaccato la nostra dabbenaggine. Ma i numeri, quelli sono rimasti. Sospesi. Quasi parcheggiati in attesa di possibili conferme. Ebbene, checché ne dicano, cinquemila uomini pronti alla guerra noi non ce li abbiamo. Non abbiamo cioè tanta gente addestrata e capace di districarsi su un terreno ostile, scontrarsi con truppe armate, tenere una posizione e magari andare alla conquista di qualcosa. Truppe e mezzi che sappiano non solo difendere, ma offendere, infliggere dure perdite al nemico e possibilmente annientare la minaccia. Ripetiamo: non ce li abbiamo. E non li abbiamo perché scontiamo anni e anni di pacifismo tout court, di tagli alla Difesa, di peacekeeping, di missioni umanitarie ecc. Due, tre mila al massimo, a voler essere ottimisti sono i nostri militari capaci di difesa e offesa. Che sanno davvero sparare. Che hanno la giusta determinazione. Che possano andare in guerra. Gente che opera nei nostri corpi di élite, paracadutisti, lagunari, san Marco: ma solo alcuni di loro, non tutti. Non dirlo è prenderci in giro. E infatti i giornaloni non lo dicono.

Commenti