Pinuccio Tatarella, un politico vincente perché uomo di popolo
Le vinceva sempre le sue battaglie politiche, Pinuccio Tatarella, perché non faceva altro che passeggiare durante le campagne elettorali. E stravinceva perché trasformava il tempo della città in un continuo far campagna, propaganda, attività e presenza di un destino consumato tutto in pubblico, tra la gente, e non per farsi tramite retorico, piuttosto spugna. Nel mare grande di una festa di popolo. Dove lui assorbiva tutti gli umori. E i colori.
Nichi Vendola, per conquistare Bari, la città tutta di superba plebe, si prese il testimone di Pinuccio Tatarella. E il vero erede di Tatarella – scomparso ancora prima di vedere la propria creatura, la destra di governo, sfasciarsi – fu proprio il comunista Vendola, uno degli uomini più fortemente poetici nella politica (tanto quanto Pinuccio, genuino e sentimentale lo fu nella “narrazione”, la capacità di dare coralità alla stagione dell’Armonia marchiandone i tempi).
Il governatore delle Puglie fu degno erede di Pinuccio non solo perché imparò presto a far doverosa sosta da Cenzino, il bar di piazza Mercantile, o per intrattenersi con la partita a carte e nel rinunciare alla vita blindata, ma perché seppe evocare nel comizio la ragione sociale della prima qualità dei pugliesi: la politica.
Il Sud ha dato all’Italia l’alta scuola di Pinuccio Tatarella
La destra che nella parentesi di governo non seppe scendere dalle sue auto blindate, non riuscì più a fare comizi come un tempo li faceva a Bari, in piazza S.Ferdinando: “Gianfrango” – recitava in cerignolese al microfono Tatarella presentando Fini ai baresi – “non sei tu che parli a questa piazza, è questa piazza che parla a te”. In nessun altro posto come a Bari, infatti, vale l’equazione tra piazza e politica – non c’è posto che eguagli Bari nella lettura dei giornali, nella discussione, nel ragionamento – ed è veramente un Mezzogiorno emancipato quello che ha dato all’Italia l’alta scuola di Tatarella, una prospettiva sociale e culturale che attraversa le pagine delle tante testate fondate da Pinuccio e fabbrica, con il vissuto popolare, la specificità di un laboratorio politico purtroppo irripetibile. Se vale l’ancoraggio meridiano, e in tema di Bari vale, altro che, ciò che ha radicato Tatarella nella scienza della politica neppure un Aldo Moro lo ha lasciato, al netto della vicenda esistenziale, tutta di tragedia e di potere. Se vale, infine, l’attraversamento trasversale, e tutto in Pinuccio è trasversale, quel suo modello è paradigma di pluralità in ragione di un fatto tutto speciale e tutto suo: nell’impossibilità di immaginare l’amministrazione della res senza la corresponsabilità dell’avversario.
Ci fosse stato ancora Pinuccio Tatarella non finiva An
La storia di Tatarella incontra quella della destra in Italia. Nel 1994, anno del primo governo Silvio Berlusconi, quando per definire Roma non si seppe trovare altra definizione che “cloaca”, in quella stessa cloaca che attentava all’efficienza della neonata Seconda Repubblica, Pinuccio Tatarella, vice-presidente del Consiglio, intuì la prima delle impossibilità. Quella di mettere alla prova le energie di piazza e di popolo da sempre tenute fuori dalla centrale del potere. Si vide respingere per ben tre volte una lettera da un dirigente del Ministero delle Telecomunicazioni, raccontò l’accaduto a Berlusconi e gli disse: “Qua non duriamo”. La storia della destra in Italia è nel perdurare del non durare. Ci fosse stato ancora Tatarella, lungo tutto il ventennio del berlusconismo, non avrebbe che avuta confermata, negli esiti, quella sua intuizione. Ci fosse stato ancora Tatarella non si sarebbe forse avuta la liquefazione di An – piuttosto vi avrebbe iscritto Berlusconi in persona – ma avrebbe acceso ancora attività, presenza e campagne elettorali nell’unica agorà accessibile all’animale politico, la piazza d’Italia la cui originaria impronta è la libertà. Ci fosse ancora Pinuccio, saremmo tutti in piazza, ciascuno forte della propria voce.