Tutti in difesa dell’italiano: autarchia linguistica come ai tempi del fascio?

20 Feb 2015 13:32 - di Redattore 54

Come si fa a non aderire a una campagna intelligente come #dilloinitaliano? Come si fa a non firmare la petizione che chiede a politica e imprese e amministrazioni di parlare nella nostra bellissima lingua che è la quarta più studiata al mondo? Magari, certo, evitando strafalcioni come un’anno di governo sui manifesti del gruppo Pd del Senato. Evitando, magari, di condensare in un telegrafico tweet i messaggi alla nazione o anche di infarcire le dichiarazioni di “provinciali” parole inglesi. Perché dietro la valorizzazione dell’italiano ci stanno gli italiani. C’è una controcultura. C’è un ritorno all’identità.

L’italiano è bello, cadono i pregiudizi

Tutto giusto dunque. Tutto condivisibile. Alla campagna hanno aderito entusiasti anche giornalisti di grido come Massimo Gramellini e Michele Serra, Annamaria Testa ne diffonde gli obiettivi dalle colonne di Internazionale: si schiera tutta la crema (mainstream non si può più dire!) del progressismo salottiero che applaude e promuove l’iniziativa. Tutto giusto e tutto condivisibile.

Le diffidenze verso la destra nemica dei forestierismi

La difesa della lingua italiana diventa così una battaglia che fa tendenza, non una “trombonata passatista” proposta dalla destra. Già, perché nel 2003, quando i senatori del centrodestra proposero un consiglio superiore della lingua italiana per difendere il nostro idioma dall’assalto di neologismi stranieri, gli uomini dell’Ulivo accusarono l’iniziativa di puntare all’omologazione del linguaggio. E proprio negli anni Novanta la Crusca (che oggi patrocina la campagna #dilloinitaliano) faceva notare che la colpa è tutta delle classi elevate: usando l’inglese, quelli che un tempo si sarebbero chiamati “forestierismi”, i ceti alti hanno voluto imporre una differenza sociale rispetto ai ceti meno abbienti ma ormai alfabetizzati. Intanto la sinistra ridacchiava con sufficienza dei sindaci di destra che facevano suonare l’inno di Mameli prima delle sedute del consiglio comunale.

La legge fascista del 1940

Ce ne sono voluti di anni, perché cadesse il pregiudizio contro le battaglie per l’autarchia linguistica. Crociate che sapevano di fascismo perché fu il regime di Mussolini nel 1940 a proibire per legge l’uso di anglicismi e parole straniere. Centinaia di vocaboli d’importazione vennero messi al bando: da dessert a raid, da film ad autogol. Settant’anni dopo quei divieti fanno sorridere, anche perché oggi siamo all’elenco di parole italiane da salvare. Nessuno usa più aggettivi come furtivo o sagace, nessuno dice più che la giornata è uggiosa, che quell’evento è destinato all’oblio e persino parole semplici come accozzaglia e zotico sono bandite dal lessico familiare. C’è tanto lavoro da fare, allora, per dirlo in italiano. Per dircelo ancora, tra generazioni, che anche una lingua viva è indice di benessere.

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