Un magistrato si è scagliato contro lo «Stato». Ma allora «chi è Stato»?
L’art. 104 della Costituzione, al primo e secondo comma, testualmente recita: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni alto potere. Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica». Significa che la Costituzione, da un lato, ribadisce l’indipendenza delle toghe da parlamento e governo e, dall’altro, si preoccupa di troncare sul nascere il pericolo di una magistratura “separata” riponendo il suo organo di autogoverno, il Csm, sotto la presidenza e la vigilanza del Capo dello Stato. Il quale è eletto dal Parlamento, cioè dai rappresentanti del popolo, lo stesso popolo in nome del quale è amministrata la giustizia. E così il cerchio si chiude: pur autonomo ed indipendente dagli altri poteri, l’ordine giudiziario è e resta funzione insostituibile dello Stato.
Le parole di Sabelli svelano l’idea di un magistrato “separato” dallo Stato
Stupiscono perciò, e non poco, le parole pronunciate da Rodolfo Sabelli («Uno Stato che funzioni dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di legalità»), presidente dell’Anm, il sindacato delle toghe. Non il governo, si badi. Ma lo Stato, di cui anche Sabelli dovrebbe sentire di far parte. Le sue parole, invece, sono rivelatrici di quella condizione di “separatezza” della magistratura che la Costituzione del 1948 ha voluto esorcizzare nel modo che abbiamo già visto e che gettano una livida luce sulla stessa Anm. Ma sono anche il frutto avvelenato di una stratificazione polemica accumulatasi negli ultimi vent’anni di conflitto istituzionale nel corso dei quali la magistratura si è spesso caratterizzata come “contropotere” rispetto a parlamento e governo. Di esempi se ne potrebbero fare a iosa. Valga per tutti il pronunciamento televisivo di Antonio Di Pietro e dell’intero pool Mani Pulite contro il decreto Biondi del 1994, poi ritirato dal primo governo Berlusconi proprio sull’onda emotiva creata dalla minaccia di dimissioni in diretta tv da parte dei pm di Tangentopoli.
Rischio di deriva paraeversiva nel conflitto tra poteri
In ogni democrazia basata sulla tripartizione dei poteri, è il parlamento a fare le leggi mentre alla magistratura è demandato il compito di farle applicare e di punire chi le viola. Non così in Italia, dove a fronte di un arretramento del potere politico si registra un’espansione sempre più forte dei poteri terzi o arbitrali. Lo ha ben documentato una ricerca effettuata un paio d’anni fa del Mulino dal significativo titolo La qualità della democrazia in Italia. Le parole di Sabelli certificano ora questa condizione in maniera drammatica. Nel momento in cui un magistrato con funzioni di rappresentanza della categoria si scaglia contro «lo Stato» additandolo come una controparte infetta e maligna e ritaglia per la sua corporazione una funzione salvifica e redentrice assolutamente ignota alla Costituzione italiana e a quelle del mondo civile, vuol dire che il protagonismo rischia di sfociare in una deriva paraeversiva inaccettabile per chiunque, soprattutto per quei magistrati – la stragrande maggioranza – che quotidianamente onorano la propria appartenenza allo Stato. Anche a questo Stato, nonostante tutto.