Via Fani, la bella vita dei brigatisti rossi mai pentiti: spiagge, ristoranti e libertà
16 Mar 2015 17:39 - di Luca Maurelli
Mario Moretti, sei ergastoli, vive a Torino, aiuta gli altri detenuti a stare in cella ma soprattutto aiuta sè stesso a uscirne la mattina, avendo strappato da tempo il regime di semilibertà grazie a un comportamento ligio e gentile. In via Mario Fani, trentasette anni fa, quando furono uccisi cinque agenti e rapito Aldo Moro, Moretti si era mostrato appena appena più ruvido: lui era l’ideologo, il regista sul campo, l’esecutore materiale. Arrestato a Milano il 4 aprile 1981, dopo nove anni di clandestinità, Moretti nel 1987 ammise pubblicamente il fallimento della lotta armata pur senza mai dissociarsi né collaborare con gli inquirenti; anzi, quando nel luglio del 1997 ottennne la semilibertà, i giudici sottolinearono che il brigatista rosso “continua ad avere un atteggiamento altero” e “solo a tratti” ha dato la sensazione di “provare compassione” per il dolore causato alle vittime.
Anche Valerio Morucci, 37 anni fa, era in Via Fani, considerato il numero due di quello squadrone della morte che aveva dagli undici ai diciannove elementi: venne arrestato nel 1979 e condannato a diversi ergastoli, oggi è libero ma non è che sia poi così pentito. Nel 1985, durante il processo d’appello per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, si dissociò ufficialmente dalla lotta armata. Fu scarcerato nel 1994. Attualmente vive a Roma, dove lavora come consulente informatico. Nel 2008, giusto per farsi un’idea sul pentimento di questo ex Br, un articolo del quotidiano francese Le Monde titolò: «Valerio Morucci, brigatista “senza rimorsi”».
Raffaele Fiore, invece, in via Fani, oltre a sparare e a uccidere, insieme a Mario Moretti estrasse dall’auto Aldo Moro e lo trasferì sulla Fiat 132 blu pronta a partire per il covo di via Montalcini. Dopo svariati omicidi, concluse la sua carriera criminale il 19 marzo 1979 quando venne catturato a Torino e condannato all’ergastolo. Non si è mai pentito e dal 1997 gode della libertà condizionale, confermata nel 2007.
Franco Bonisoli fu invece quello che uccise, in strada, l’unico agente che riuscì a reagire: il 1º ottobre 1978 fu condannato all’ergastolo nel processo romano Moro-Uno, nel 1983 si dissociò e attualmente fruisce di un regime di semilibertà.
I brigatisti rossi da via Fani alla Svizzera e al Nicaragua
Ma la lista dei brigatisti che a vario titolo sono stati indicati come membri del commando di via Fani sarebbe lunga: ci sarebbe Alvaro Lojacono, cittadinanza italiana e svizzera, coinvolto anche nell’omicidio di Mikis Mantakas, autore anche dell’omicidio del giudice Tartaglione, che in Svizzera ha scontato solo 11 anni ed è uscito per buona condotta., nonostante una condanna della giustizia italiana all’ergastolo ed è da anni libero. Su Alessio Casimirri (nella foto in alto), latitante in Nicaragua e titolare a Managua prima del ristorante Magica Roma e poi della La cueva del Buzo (il covo del sub), perfino il Pd, oggi, s’è mosso per chiedere iniziative del governo sul fronte dell’estradizione. Ma non servirà a nulla. E gli altri? Qualcuno è morto, come Prospero Gallinari, tanti sono liberi, Annalaura Braghetti, l’affittuaria della prigione di via Montalcini, si occupa di informatica, Adriana Faranda fa la fotografa, l’ideologo delle Br Renato Curcio, che non ebbe però un ruolo diretto in via Fani perché già in carcere, tiene lezioni all’università come intellettuale.
Le cinque vittime dimenticate
E le cinque vittime vittime della strage? Neanche un strada intitolata, una fiction Rai, un’ospitata dei parenti al Quirinale, un selfie con Renzi, un dibattito pubblico. Eppure quei cinque agenti della scorta erano eroi veri: il maresciallo dei CC Oreste Leonardi, alla guida della Fiat 130 di Moro, la guardia di Ps Raffaele Iozzino, l’unico che riuscì a reagire uscendo dall’auto e sparando contro uno dei brigatisti, l’appuntato dei CC Domenico Ricci, la guardia di PS Giulio Rivera e il vice-brigadiere di PS Francesco Zizzi. Poco o nulla si sa di loro e se ne parla nelle scuole, in tv, nelle università. Sarà per questo che i familiari delle vittime, assetati ancora di verità, a distanza di 37 anni chiedono di barattare notizie con sconti di pena, pur di sapere qualcosa. L’Associazione dei familiari sta mettendo a punto, con la consulenza dell’avvocato che le rappresenta, Valter Biscotti una proposta di legge che ripropone, in una chiave che tiene conto della realtà italiana, il modello adottato in Sud Africa definito “verità contro impunità”. Ma i brigatisti “poco pentiti” ci staranno?