Aldo Fabrizi, 25 anni dopo. La sua “maschera” anticipò il neorealismo
È un quarto di secolo che Aldo Fabrizi ci ha lasciato: è morto a Roma, la sua città, il 2 aprile del 1995, dove era nato nel 1905. Ma a Roma nessuno lo ha dimenticato, tutti ricordiamo la sua maschera popolare comica e drammatica, la sua grande arte di divo vero, non costruito. Sì, perché lui era un uomo che proveniva dalla pancia di Roma, non era un attore costruito, e per questo seppe sempre rappresentare la vera romanità con vivezza e spontaneità. Insieme con Anna Magnani e Alberto Sordi, è tra gli artisti che hanno dato dignità culturale e artistica a questa città. Roma matrigna, hanno detto in molti, Fabrizi non è abbastanza ricordato dalla città a cui ha dato così tanto? Lui non solo fu attore grandissimo, ma sceneggiatore, regista, poeta, studioso del costume e della tradizione. Come scrisse tanti anni fa Mario Soldati, Fabrizi fece poesia con la pastasciutta: ci ha lasciato dei sonetti che attraverso Trilussa e Pascarella, riconducono sino alla grande tradizione letteraria romanesca del Belli. «Un sugo cor sapore rancichetto, che m’ ha portato indietro come un sogno ar tempo bello ch’ ero poveretto…», scrisse un giorno raccontando di aver fatto un sugo con dei resti trovati in frigorifero, resti che un altro avrebbe buttato, osservò. Perché Fabrizi veniva da una famiglia autenticamente popolare: la madre, Angela Petrucci, aveva un banco di frutta e verdura a Campo de’ Fiori, il padre, Giuseppe, era vetturino, e morì cadendo in un fosso quando lui era piccolo. E quella del vetturino fu una delle prime parti interpretate da Aldo Fabrizi all’inizio della sua carriera. In seguito al suo lutto abbandonò la scuola, e condusse una vita di ristrettezza, di povertà, facendo mille mestieri per tirare avanti: meccanico, decoratore, guardia notturna (altra parte che in seguito interpreterà). Nel 1925 fece persino il vetturino. Ispirato dal Belli, scrisse dei sonetti romaneschi, che sottopose addirittura all’approvazione di Trilussa, al quale piacquero molto, tanto che lo incoraggiò continuare.
Aldo Fabrizi esordì nel 1931 al cinema Corso
Esordì al cinema Corso nel 1931, con l’avanspettacolo, dando vita a personaggi romani umili, caratteristici, come il vetturino appunto, il portiere, il tranviere, il tassista. Recitava insieme con Beatrice Rocchi, in arte Reginella, che sposò nel 1931 e dalla quale ebbe due figli. In quegli anni ebbe molto successo negli spettacoli teatrali rionali, nei quali portava sul palcoscenico la famiglia romana che cerca di sbarcare il lunario. Nel 1942 esordì al cinema con Avanti c’è posto, nel ruolo del tranviere sensibile col cuore spezzato. Il soggetto era suo e di Cesare Zavattini, così come suo era la trama del successivo Campo de’ Fiori e di L’ultima carrozzella, con Totò, cui aveva collaborato anche Federico Fellini. Era nato un genere cinematografico nuovo, tutto italiano, che certamente fu anticipatore e prodromico al neorealismo di Roberto Rossellini di Roma città aperta (del 1945), cui lo stesso Fabrizi partecipò. Da allora fu un susseguirsi di successi, in teatro e al cinema, come autore, regista, sceneggiatore e attore. Fabrizi lavorò con i più grandi cineasti italiani, da Bonnard a Mattoli, da Castellani a Zampa, da Lattuada a Blasetti, da Steno a Monicelli, da Emmer a Pabst, da Magni a Scola e tanti tanti altri, oltre a quelli citati in precedenza. In questi anni conobbe anche la compagnia teatrale di Luigi Almirante, famiglia con la quale rimase sempre in contatto, divenendo in particolare amico di Giorgio, ai cui funerali si recò a piazza Navona nel 1988. Quel gesto di sincera amicizia costò a Fabrizi una specie di ostracismo da parte di alcuni ambienti radical-chic dello spettacolo, ma il personaggio era davvero troppo grande per avere seri danni da questo. Infatti fece numerose apparizioni in tv, medium col quale comunque Fabrizi non aveva un grande affiatamento, apparizioni sempre confortate da altissimi indici di ascolti. Infatti il suo unico lavoro televisivo fu lo sceneggiato La voce nel bicchiere del 1959. Nel 1971 comparve insieme a “pezzi da 90” come Ave Ninchi, Bice Valori e Paolo Panelli in Speciale per noi di Antonello Falqui, importante perché di fatto è l’unica testimonianza che rimane delle sue antiche macchiette teatrali. Indimenticabile, poi, negli anni Sessanta, la sua partecipazione a Rugantino al teatro Sistina, di Garinei, Giovannini, Franciosa e Festa Campanile, dove interpretava magistralmente il ruolo di Mastro Titta, il boia di Roma, personaggio riproposto poi nel 1978 nella nuova rappresentazione di Rugantino. Successivamente raccolse e pubblicò le sue poesie per così dire gastronomiche, sulla pastasciutta, sul pane, ma soprattutto sulla modernità caotica che avanzava e alla quale lui certamente preferiva il rassicurante e più umano passato, con le scampagnate e i sentimenti probi e semplici. Abitava nel quartiere Nomentano, in via Arezzo, dove lo si vedeva spesso per il quartiere. Nel 1981 rimase vedovo. Riposa al cimitero monumentale del Verano. Sulla mania moderna della dieta scrisse: «Nun è pe’ fa’ er fanatico romano; però de fronte a ‘sto campa’ d’inedia, mejo morì co’ la forchetta in mano!».