I fascismi stanno tornando in Europa? Uno storico risponde di no
Il fascismo (o meglio i fascismi) come risposta alla crisi del capitalismo e della democrazia tra le due guerre è il dato di partenza dello studio di Marco Fraquelli Altri Duci (Mursia), una sorta di enciclopedia di quelli che Maurice Bardèche chiamò i “fascismi sconosciuti”: dall’Albania al Belgio, dalla Croazia all’Islanda, dalla Polonia alla Norvegia, fino alla Francia e alla Spagna senza dimenticare, ovviamente, la Guardia di Ferro di Codreanu in Romania. Una dimensione “trascurata” di un fenomeno, quello dei movimenti fascisti, che pure continua ad attrarre legioni di storici.
I fascismi stanno tornando in Europa?
Se ne è parlato ieri durante la presentazione di Altri duci a Roma (alla libreria Assaggi a San Lorenzo) che ha ruotato attorno a un interrogativo di fondo, rilanciato da Giorgio Galli nella prefazione al libro: se i fascismi europei furono una risposta alla crisi del capitalismo tra le due guerre è possibile che le condizioni attuali siano terreno fertile per il proliferare di movimenti analoghi? Una domanda legittima che prende le mosse da una similarità di contesti: la crisi dell’economia finanziarizzata, lo smantellamento dello stato sociale, la marginalità del fattore lavoro-impresa. E tuttavia i vari partiti di ispirazione populista che si affacciano, anche con un certo successo, alla ribalta della politica europea, appaiono molto meno complessi dei fascismi tra le due guerre sia a livello culturale, sia a livello di progettualità e di alternativa al sistema vigente. Manca inoltre in essi quella vocazione sociale, quella tensione verso la costruzione di un “uomo nuovo” che era tratto tipico dei fascismi europei ed anche l’idea di uno Stato organico da contrapporre alle decadenti democrazie parlamentari. Lo stesso Fraquelli ha detto di ritenere impossibile un ritorno del fascismo nelle modalità che si presentarono negli anni Trenta del Novecento.
Esiste un unico modello di fascismo?
Più difficile invece rispondere all’interrogativo che accompagna le pagine del libro dall’inizio: esiste un fascismo come modello archetipico in base al quale valutare il grado di vicinanza o di lontananza dei fascismi “minori”? Per rispondere occorre fare riferimento a un’autorità storiografica come Renzo De Felice, per il quale il fascismo era un’espressione politica da circoscrivere in maniera rigida, collegabile esclusivamente al periodo compreso tra le due guerre mondiali, e collocabile in quei Paesi dove c’era stato un processo avanzato di liberalizzazione e di democratizzazione. In più per De Felice il fascismo è un fenomeno dei ceti medi e ciò lo portava ad escludere il movimento di Codreanu dal novero dei fascismi.
La tesi di Nolte contestata da De Felice
De Felice non amava poi la tesi di Ernst Nolte secondo cui il comun denominatore di tutti i movimenti fascisti era la reazione alla minaccia comunista. Il tratto dell’anticomunismo è presente in tutti i fascismi ma è appunto una caratteristica e non l’essenza di questi fenomeni. Concordava però con Nolte sul fatto che il fascismo fu un tratto epocale di un periodo storico nel quale – al di là delle differenze che ci furono tra i vari fascismi – si verificò “un reciproco richiamo”. Qual era allora il minimo comun denominatore che consentiva a tutti i movimenti fascisti nell’apparenza o nella sostanza di essere considerati tali? Nella sua prefazione a I falsi fascismi di Mariano Ambri (1980) De Felice elenca alcuni elementi tipici di un “comune sentire” fascista. L’idea di comunità contro l’idea di società, la gerarchia delle funzioni contro la tirannia del numero, l’etica della militarizzazione della vita frutto del cameratismo sperimentato durante la prima guerra mondiale. Da questo punto di vista il fascismo prima ancora che un’ideologia è allora – come ebbe a sottolineare George L. Mosse – un “sentimento del mondo”.
Il fascismo come “modernismo reazionario”
Ma il fascismo guardava al passato o al futuro, era moderno o antimoderno? Soccorre in questo caso un’altra espressione fortunata, un ossimoro che racchiude le suggestioni culturali ascrivibili al fenomeno fascista nella formula di “modernismo reazionario” (titolo di uno studio di Jeffrey Herf centrato però solo sulla Germania tra Weimer e il Terzo Reich). Modernità e reazione: un paradosso solo in apparenza perché gli intellettuali fascisti vivevano con grande inquietudine il loro tempo – ne è testimonianza una frase di Pierre Drieu La Rochelle molto amata dall’ambiente di destra – e in quel tempo volevano incidere con trasformazioni rivoluzionarie e inedite.
Il fascismo come “terza via”
Scriveva Drieu La Rochelle: “Sono nato a destra e ho conservato della mia educazione il senso dell’autorità e della patria, ma sono dovuto andare a sinistra per trovare la coscienza del disordine causato da un capitalismo senza più alcuna virtù”. È una frase in cui c’è tutta l’ansia moderna della sperimentazione di quella che sarebbe stata definita “terza via”, contro collettivismo e capitalismo, oltre la destra e oltre la sinistra. L’opposizione al progresso era da questo punto di vista solo una prospettiva più alta, di chi cioè è capace di intuire e comprendere il senso della decadenza dell’Europa. Ma a questa “reazione” si univa la modernità della sfida tecnologica messa al servizio della potenza della nazione.
Codreanu e il neofascismo
Interessante una piccola riflessione a margine dello studio di Fraquelli: come cioè il neofascismo italiano si sia “innamorato” dei fascismi minori e attraverso quali interpretazioni. È indubbia l’influenza di Codreanu, per esempio. Erano i gruppi comunitari dei Cuib ad esercitare un grande fascino su un mondo che viveva un forte legame identitario tra i suoi aderenti per “resistere” alla ghettizzazione e alla demonizzazione che arrivavano dall’esterno. Così com’è indubbio il fascino di personaggi come Josè Antonio Primo de Rivera, apprezzato per la sua intransigenza e per la sua idea del fascismo come rinnovamento spirituale. I fascismi minori erano poi quelli che non erano andati al potere e non erano “macchiati” da errori tragici e ingiustificabili. In essi quindi il mondo neofascista degli anni Settanta e Ottanta scorgeva intatte le potenzialità di una rivoluzione non deturpata dall’inveramento storico e dai compromessi con la realtà.
Romualdi e il fascismo come risposta alla decadenza
Infine, l’interpretazione corrente che si forniva era quella mutuata dallo studio di Adriano Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, in cui il fascismo era appunto visto come unitaria visione del mondo che, sulla scia del pensiero antimoderno di Julius Evola, si opponeva alle degenerazioni dell’illuminismo: cioè criticava radicalmente l’egemonia della ragione, il laicismo, il liberalismo, la demonìa dell’economia, l’idea che per far felici i popoli si dovesse puntare alla felicità del maggior numero. Sorvolando sulle differenze storiche, la visione di Adriano Romualdi conduceva infine a trattare il fascismo come “reazione” alla decadenza europea, iscrivendolo nell’antitesi rivoluzione-controrivoluzione che caratterizzò l’Europa tra le due guerre.