Italicum, Pd al redde rationem: scontro finale tra renziani e minoranza dem
Italicum, è sulla legge elettorale che si consuma l’ultima battaglia di una guerra tutta interna al Pd che sta minando dalla base il Nazareno e nelle fondamenta l’esecutivo renziano. Archiviato il Jobs Act. Emendati (solo in parte) i dissapori su linea ufficiale e frondisti d’assalto, tra i renziani la questione di fiducia sull’Italicum viene data ormai per scontata, tranne che sulle pregiudiziali su cui la riflessione è ancora aperta. E nelle mani di chi vuole un confronto «a viso aperto» e chi punta il dico indice cone le «forzature» della minoranza che vorrebbe imporre il diritto di veto.
Italicum, nel Pd è guerra aperta
E in tutto questo, con Bersani in prima linea e i dissidenti nelle retrovie, il richiamo all’ordine dei pacificatori e gli inviti sparuti ad abbassare i toni apocalittici lasciano il tempo che trovano. E così, l’affondo dell’ex capogruppo Roberto Speranza viene preso dai fedelissimi del premier come una forzatura per dare fuoco alle polveri in vista dell’approdo in aula dell’Italicum. Ma Matteo Renzi ostenta tranquillità, convinto che in molti nella minoranza alla fine voteranno la fiducia e gli altri opteranno per non votare, pena una rottura irreparabile dentro il Pd e il governo. Il Quirinale intanto osserva con attenzione ma non interviene su una materia che riguarda strettamente i rapporti tra Governo e Parlamento. E mentre dal Colle tutto tace, a valle in Largo del Nazareno sarebbero ancora in corso contatti e “sondaggi” tra i dem, ma nessuna trattativa per cercare di ammorbidire lo scontro interno. Per Renzi l’Italicum va bene così come è e neppure la prossima settimana, se la discussione in aula si fermerà per slittare al 4 maggio, servirà per cercare un punto di incontro con la sinistra. Le posizioni sono cristallizzate e focalizzate su un punto soprattutto: la maggioranza del Pd non si fida della minoranza.
La fiducia e il rischio dei franchi tiratori
E allora, rispedite al mittente le richieste di Roberto Speranza di una lealtà reciproca, i renziani fanno sapere che «la fiducia si rende necessaria per colpa degli emendamenti delle minoranze interne e dei partiti alleati, sui quali, con la richiesta di voto segreto delle opposizioni, si rischia di affossare la legge». Un muro contro muro per cui, se viene data per certa la fiducia sul testo della legge, oggi o martedì mattina, il governo deciderà se blindare le pregiudiziali di costituzionalità, chieste da Forza Italia. Una prova di forza che, in realtà, si vorrebbe evitare, ma è vero che davanti al voto segreto il numero di franchi tiratori di varie parti potrebbe far saltare subito la riforma elettorale. «Con la fiducia si capirà se nel mirino della minoranza ci sia davvero la legge elettorale o il governo», è la sfida dei renziani, convinti che sia il logoramento di Renzi il vero obiettivo della sinistra. Minoranza che, martedì mattina, riunirà, a quanto si apprende, le varie anime, da Cuperlo a Fassina, dai bersaniani a Bindi e Civati, per tentare di decidere una strada comune sul voto di fiducia messa dal governo e sul voto finale alla riforma.
La minoranza al redde rationem?
Pier Luigi Bersani, come Rosy Bindi, Fassina e Civati vengono messi, nel pallottoliere dei calcoli dei renziani, tra coloro che non voteranno la fiducia e potrebbero votare no al voto finale sul testo. Ma al di là della frattura interna che l’Italicum allargherà dentro il Pd, a Renzi interessa solo portare a casa, anche con uno scarto ridotto, la legge elettorale. Per dimostrare, nella campagna elettorale per le regionali, che sta entrando nel vivo, che lui non si fa fermare da nessuno sulla strada delle riforme. E chi cerca di frenarlo, votando contro la fiducia al governo, si assume la responsabilità di farlo cadere e trascinare il paese alle elezioni. Una situazione di alta tensione che per ora il Quirinale osserva, considerando che ci sia in corso una dinamica tra governo e Parlamento e tra e dentro i partiti tale da non richiedere un intervento del Colle.
Guerra dem a colpi di interviste
1) Roberto Giachetti: il Vicepresidente della Camera, rispondendo a Edoardo Graco ad Agorà dichiara che anche se «La legge elettorale è un compromesso: l’Italicum mi piace meno di come era originariamente, e rimango convinto che le preferenze siano un problema serio, che erano meglio i collegi….», non crede comunque «alla scissione del Pd: questo perché una buona parte di coloro che la minacciano, se escono dal Partito Democratico, finiscono politicamente di esistere. Chi è che, dopo, li va a cercare?».
2) Dario Franceschini, ministro della Cultura ed ex segretario del Pd, in un’intervista a Repubblica sull’Italicum lancia un appello all’unità ai colleghi di partito, in particolare ai massimi dirigenti, «agli ex segretari come Bersani ed Epifani, ai dirigenti come Bindi, Cuperlo e Speranza»: «Sono anni che parliamo di rafforzare l’esecutivo, di dare un ruolo più incisivo al presidente del Consiglio, non certo di indebolirlo, di fine del bicameralismo. Tutto il dibattito costituzionale ruota intorno a questo. Certi toni apocalittici sono francamente sproporzionati».
3) Lorenzo Guerini, vice vicesegretario del Partito democratico, intervistato dal Corriere della sera rivolge infine un appello ai parlamentari del Pd in vista dell’avvio nell’Aula della Camera dell’esame della legge elettorale: «Il governo ritiene possibile usare la fiducia solo come extrema ratio. Il tema è come i parlamentari, a viso aperto, vogliono prendersi le responsabilità davanti al Paese, non nascondendosi dietro l’uso improprio del voto segreto».
4) Roberto Morassut, il deputato del Pd intervistato a Radio Città Futura, ha infine ribadito il suo augurio che «su un provvedimento così atteso come la legge elettorale, non si arrivi alla fiducia. La discussione nel Pd sulla legge c’è stata, ora è rimasta una differenza di posizioni sul punto dei capilista, che non mi pare un argomento tale da mettere in crisi la possibilità di dare al paese una legge elettorale». Ai posteri l’ardua sentenza…