Veneziani: il 25 aprile nega dignità anche a chi ha dato la vita per la patria
“Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa ”. È stato chiaro, ultimativo, Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, fresco di nomina come direttore scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. Il 25 aprile non è una festa perché rimane una celebrazione divisiva e mai concepita all’insegna della veritas e della pietas, sostiene il neo direttore.
Veneziani, lei ha parlato di una festa divisiva e di una festa “contro”. Parole quanto mai opportune ascoltando le esternazioni colme di rinata retorica resistenziale e antifascista del presidente della Camera prima, del Capo dello Stato poi, non trova?
Sì, il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita.
Lei sostiene che nella retorica di parte il 25 aprile “oscura” persino la Grande Guerra: come è possibile?
Facendo parte del Comitato degli anniversari di Palazzo Chigi, ho potuto notare proprio questo paradosso: mentre alcune ricorrenze, come il centenario della Grande Guerra, sono ricordate solo negli aspetti tragici, catastrofici, con il carico di dolore, sacrifici e morte, sul settantesimo del 25 Aprile prevale esclusivamente l’aspetto celebrativo, senza mai ricordare le pagine nere, sporche, sanguinose che l’hanno accompagnata. Negli ultimi tempi è poi è cresciuta l’ enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra mondiale. Anzi, per la Grande Guerra si è deciso solo di restaurare monumenti, per il 25 aprile vi sono celebrazioni ovunque. Prima considerazione: scusate, il centenario è una data più importante, una data “tonda”, non la celebriamo mai; mentre il 25 aprile viene celebrato ogni anno, è l’unica festa civile del nostro Paese, oltre alla Festa del Lavoro, quindi non è certo una festa trascurata; e oltretutto è irrituale celebrare i Settantesimi. Chiedevo, pertanto, nient’altro che l’equiparazione dei giudizi storici, esaminare i due eventi dal punto di vista storico e non celebrativo, mettendo in luce anche i punti critici della Resistenza.
Le parole del Capo dello Stato non aiutano certo a ricomporre la memoria storica quando ancora una volta ristabiliscono una gerarchia tra giovani di Salò e partigiani: pietà per i morti – ammette – ma i primi stavano dalla parte sbagliata, i secondi da quella giusta. Parole che segnano un passo indietro rispetto al processo di riconciliazione avviato da Luciano Violante quando parlò della necessità di comprendere le ragioni dei ragazzi e delle ragazze che scelsero la Rsi.
Certamente. Debbo dire che dagli Ottanta ai Novanta, da Craxi a Violante, per citare i due limiti temporali, c’è stato il tentativo onesto di ripensamento e di riconoscimento che molti italiani erano “dall’altra parte” o perché obbedivano a un comando o perché avevano deciso di difendere l’onore d’Italia. Non si può fare di tutta un’erba un fascio, non si può giudicare tutto alla luce di alcuni eventi tragici e cruenti, sarebbe come ridurre la Resistenza al Triangolo Rosso. Ci sono alcuni episodi che sicuramente non hanno fatto parte della buona memoria del nostro Paese. Come lo scempio di Piazzale Loreto che resta un atto di barbarie, lo riconosceva anche il Presidente Mattarella, che pure si è così ben allineato al politicamente conforme. Riconosceva che è una pagina barbara che non trova cittadinanza in una civiltà. E questo dobbiamo riconoscere al di là di ogni giudizio storico sul fascismo.
Come andrebbe ripensato il 25 aprile?
Considerando che l’unica festa laica che noi celebriamo è la “festa” di una guerra civile – come l’hanno definita Giorgio Pisanò e Claudio Pavone – occorrerebbe fare alcune operazioni: rendere l’ onore delle armi a chi ha perduto con onore e ha speso la propria vita in nome di un’idea; riconoscere che accanto al lato “radioso” della Resistenza ci son state pagine infami che non sono state riconosciute e che quindi andrebbero ammesse in un giudizio storico più completo, all’insegna della veritas e della pietas . Diversamente, queste feste perdono la loro funzione.
Il presidente della Repubblica ha ribadito i valori dell’antifascismo, termine riemerso e sbandierato in molti interventi pubblici in questi giorni di enfasi. Lei ha sottolineato una virulenza di accenti inusitata rispetto anche a pochi anni fa. Come mai, secondo lei?
Perché viene meno il terreno della politica, mancano valori condivisi. La politica è sempre più “ad personam”, ci sono 4 protagonisti che sostituiscono le idee, i partiti i movimenti, i valori. E allora come risarcimento retorico per la mancanza della politica, qualcuno – la Boldrini in modo particolare che ne rappresenta la massima sacerdotessa – si aggrappano al politicamente corretto, si aggrappano alle parole e ai riti non potendo cambiare la realtà. Da questa incapacità di agire nella realtà nascono intere disquisizioni sulla parola “zingaro”, sull’espressione “radere al suolo”, da qui le polemiche sull’uso di alcune espressioni che riguardano gli omosessuali. Si tenta attraverso il lessico di sostituire la realtà e quindi si preferisce dedicare una giornata alla memoria dei morti dell’immigrazione anziché affrontare realisticamente l’esodo dei migranti. Si attaccano ai riti e i feticci. Citare lo spettro del fascismo è un po’ grottesco 70 anni dopo. Il grande filosofo Del Noce già alla fine della guerra disse che con il fascismo cadeva anche l’antifascismo, non aveva più senso.
Avrà una chiave di lettura ben diversa il suo convegno a Breda di Piave il 23 3 il 24 maggio: quale la chiave di lettura da lei data all’iniziativa?
Sarà innanzitutto un tentativo di pensare in modo unitario, di coinvolgere gli italiani tutti, da nord a sud da destra a sinistra, di considerare le esperienze di chi intervenne, chi pagò con la viita, chi andò al fronte perché costretto. Non dobbiamo avere un’idea stucchevole della Grande Guerra, altrimenti aggiungeremmo retorica a retorica. Dobbiamo ricordare che si trattò anche di un’immane catastrofe, che l’Europa che ne uscì era peggiore dell’Europa che vi era entrata. Insomma, non andiamo lì a celebrare la guerra, andiamo lì più realisticamente a dire che lì si cementò nel sangue e anche nell’orrore l’identità italiana. Andremo lì a recuperare una sofferta ma vera identità.