Dalla Rsi alla beatificazione: la Santa Sede dà il via libera per padre Chiti
Era già un ufficiale dell’esercito quando, dopo l’8 settembre 1943, decise di aderire alla Repubblica sociale italiana. Ora la Santa Sede ha autorizzato l’apertura della causa per farlo beato e per canonizzarlo. È la vicenda straordinaria di Gianfranco Maria Chiti, diventato cappuccino all’età di 57 anni, dopo essere stato, tra l’altro, imprigionato nel campo di Coltano, lo stesso in cui Ezra Pound fu rinchiuso per settimane in quella gabbia che il poeta definì «del gorilla».
Due grandi vocazioni: la patria e Dio
A darne notizia è stato Avvenire, che ha ripercorso la lunga vita del frate, morto nel 2004 a 83 anni. Una vita vissuta all’insegna di due grandi vocazioni: quella patriottica, servita nelle file dell’esercito anche dopo la fine della guerra, e quella religiosa, vissuta all’insegna dell’obbedienza ai voti. Da militare era arrivato al grado di generale di brigata ed era stato comandante della scuola allievi sottoufficiali di Viterbo. Da frate girò tutta l’Italia, assumendo sul “campo” il ruolo di «padre spirituale» come gli riconosce Avvenire.
Una figura che rompe gli schemi
Fra le circostanze che lo salvarono dalle epurazioni post-belliche c’è il fatto che, come in molti testimoniarono e come ricorda ora padre Flavio Ubodi, vicepostulatore della causa di beatificazione, durante la Rsi, in virtù anche del suo grado di ufficiale, Chiti «poté salvare centinaia di persone, impedire rastrellamenti e opporsi alla distruzione di interi villaggi». Salvò dalla fucilazione partigiani ed ebrei e oggi è ricordato anche nel Libro dei giusti. In un Paese che ancora sconta le lacerazioni della guerra civile e la narrazione manichea che ne è seguita, padre Chiti rompe parecchi schemi. Anche quello seguito da diversi fascisti che poi seppero reinventarsi campioni dell’antifascismo, assurgendo col tempo alla beatificazione laica della nuova Repubblica.
Una verità «sgradita ai più»
Dalla biografia che gli è riservata sul Portale delle memorie, dedicato ai combattenti decorati con medaglie al valor militare (Chiti se ne guadagnò una di bronzo per la battaglia sul Don), si capisce che Chiti non rinnegò la sua scelta repubblichina, né dopo la dura esperienza del campo di concentramento né di fronte a una platea antifascista. Sul sito è riferito un episodio avvenuto nei «difficili mesi del dopo-Coltano» e raccontato da «un fraterno amico di gioventù e di Accademia». «A sera arrivò alla stazione ferroviaria di Pesaro. […] Passò innanzi al teatro Rossini ove la molta gente che vi entrava attirò la sua attenzione. Vinto dalla curiosità – è il racconto dell’amico – entrò anche lui». L’incontro era stato organizzato da «un partito egemone» e ruotava tutto sui «temi dell’antifascismo e della guerra perduta». «Al termine, all’invito rivolto ai presenti di partecipare al dibattito – riferì ancora l’amico – Gianfranco, infagottato in un vecchio cappotto militare e un povero zaino in spalla, volle guadagnare il palco ed esternare la sua verità per molti aspetti decisamente sgradita ai più!».
Il discorso del «Reduce» della Rsi
«Il pubblico ascoltò in silenzio, guardingo e incredulo parole e concetti chiari, ma non volle e non seppe capirli e prevalse la settaria passione politica. Dopo il silenzio dell’ascolto, a intervento concluso, i primi mormorii e poi aperta contestazione ben presto trasformatasi in acceso clima minaccioso mentre il Reduce si dirigeva verso l’uscita del Teatro». «Considerato il particolare momento, quello di Chiti fu sì un atto di incosciente coraggio, ma anche la dimostrazione che egli conservava una tale carica di umanità cui anche quei “nemici” non avevano osato contestarlo, consentendogli di arrivare al termine del suo intervento». Non sappiamo cosa disse quella sera padre Chiti, «si è perduto tra le nebbie dell’oblio e la ferma ritrosia dell’amico», si legge ancora sul sito, ma «certamente – è la conclusione – parole e argomenti davvero di eccezionale levatura».