Impresentabili: storia di un termine che non sempre fu marchio di infamia

28 Mag 2015 17:34 - di Renato Berio

Impresentabili, un aggettivo imbarazzante, un marchio, un bollino per politici scaduti, o da far decadere. Ma non è sempre stato così: l’accusa di “impresentabilità” fu lanciata, nel 1997, da Ernesto Galli della Loggia nei confronti dei missini “sdoganati” da Silvio Berlusconi e traghettati al governo del Paese. Ne nacque un dibattito interessante: il mondo della destra rivendicò la sua “impresentabilità” leggendola come estraneità al sistema di potere ma allo stesso tempo, sempre all’interno della destra politica, si discusse sulla necessità di attrezzare le file di chi era sempre stato all’opposizione con una credibile cultura di governo. Le due cose – estraneità al sistema di potere e capacità di “buona amministrazione” – non erano incompatibili, si disse all’epoca. Fu rivendicato inoltre, da parte dei postmissini confluiti in An, il buon risultato dei tanti sindaci della Fiamma eletti nella tornata amministrativa del ’93 (quella che fece registrare la sfida romana tra Fini e Rutelli e quella napoletana tra Mussolini e Bassolino).

La cultura di destra era “impresentabile”?

Ma fu soprattutto sul piano culturale che la destra postfascista si sentì messa sul banco degli imputati: occorreva convertirsi a nuovi autori o mantenersi attaccati alle antichi radici culturali? I giovani di An furono “costretti” a scegliere tra Evola e Popper. L’accusa di “impresentabilità” – sebbene coniugata in termini molto diversi da oggi – faceva nascere discussioni feconde e utili.

Gli impresentabili oggi: moralismo a caccia di pesci piccoli

Oggi il termine “impresentabili” è diventato lo specchio del paradosso della politica italiana: da un lato la mancanza di selezione da parte dei partiti, in primo luogo del partito guidato dal falso “rottamatore” Matteo Renzi, dall’altro l’intrusione “giustizialista” nel processo che dalla sovranità popolare dovrebbe portare all’organizzazione della rappresentanza. Con risvolti tragicomici: manca uno screening dei candidati alle comunali, i nomi saranno resi noti praticamente a campagna elettorale chiusa, tutta l’operazione ha il sapore di una manovra tesa alla “riduzione del danno” che getterà ulteriore discredito sulla politica. Ma la sceneggiata migliore è quella offerta dal Pd con esponenti che dicono “fuori i nomi” e altri che “temporeggiano” e con Rosy Bindi cui è sfuggita di mano l’intera operazione. Un “moralismo a caccia di pesci piccoli” (come ha detto Marco Follini) che sta travolgendo la credibilità dei partiti.

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