Il pm Di Matteo si scalda a bordo campo. E attacca Berlusconi
Le sirene della polemica politica sembrano avere un richiamo irresistibile sui magistrati. Da Borelli («resistere, resistere, resistere!») a Di Pietro, da De Magistris a Ingroia l’ultimo ventennio italiano dimostra che se hai una toga addosso non vedi l’ora di buttarla alle ortiche per poi tuffarti come mamma t’ha fatto nell’arena politica. Non sempre con grandi risultati, però. Passato il periodo dello splendore, archiviati gli Ola entusiasti e quasi sempre interessati della stampa amica, appannata l’immagine iconica dell’eroe civile, si torna nell’ombra. E non è un bel tramonto. La cronaca spicciola è piena di figure osannate e, ora, avvizzite, trasformate in macchiette di sé stesse, digerite, metabolizzate, espulse dalla politica e dalle prime pagine dei giornali e restituite all’anonimato dalla cosiddetta “società civile”.
L’ultimo in ordine di tempo a farsi affascinare dalla politica dopo mesi di avanti e indietro e di cori da stadio da parte dei suoi supporter fra i quali spicca la travolgente claque dei colleghi del Fatto Quotidiano e di quelli di Repubblica, sembra essere il pm Nino Di Matteo recentemente azzoppato dal Csm che un mese fa ha bocciato la sua domanda al concorso per la copertura di tre posti alla Procura nazionale antimafia preferendogli tre colleghi meno noti ma che, secondo i consiglieri di Palazzo dei Marescialli, potevano vantare un ventaglio di esperienza maggiore.
L’irritazione di Di Matteo bocciato dal Csm alla Procura antimafia
Di Matteo, che non ha preso per nulla bene la bocciatura del Csm – «sono molto amareggiato, deluso e preoccupato. Tra i criteri del Csm continua a incidere pesantemente la logica dell’appartenenza correntizia. Il primo criterio è a quale corrente appartieni. E chi, come me e tanti altri, non appartiene a nessuna corrente, e anzi osa criticare la patologia del sistema, vede bocciata ogni aspirazione», disse irritato a botta calda al giornalista di Repubblica che lo intervistava – scende anche lui, ora, nel ring della politica. E, indovinate un po’, chi si sceglie come sparring partner? Nientendimeno che il Cavaliere Silvio Berlusconi accusato, dal pm che ha condotto l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, di essere colui che considera una perdita di tempo la lotta contro le cosche.
Il parterre a cui Di Matteo serve su un piatto d’argento la testa del solito Cavaliere-amico-della-mafia è, ovviamente più che benevolo. Il solito giro di danza dei professionisti dell’antimafia. L’occasione è la presentazione del libro “Collusi, perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia“. Un titolo che è già una condanna a prescindere. E, infatti, è scritto a quattro mani dal pm Di Matteo – magistrato dell’accusa – e dal giornalista di Repubblica, Salvo Palazzolo. C’è il solito prezzemolismo dell’antimafia militante. Il solito Don Luigi Ciotti, l’onnipresente Claudio Fava. Insomma, i soliti soliti. Stupisce l’assenza imperdonabile di Roberto Saviano. Ma si sa, quando ci sono troppi galli nel pollaio rischia di non farsi mai giorno.
Di Matteo: tutto viene scaricato sulle spalle dei magistrati
«La mafia non è assolutamente sconfitta – assicura Di Matteo smentendo gli entusiasmati tripudi dei suoi stessi colleghi dopo gli arresti di qualche capomafia – anche se sono stati fatti enormi passi avanti, rimane il nodo dei rapporti altri e alti delle mafie verso i quali bisognerebbe reagire con più decisione». Giusto.
Poi ecco la domanda retorica buttata lì quasi per caso a preparare il terreno. «Il dubbio che mi attanaglia è: oggi queste indagini sono sentite necessarie dallo Stato? O sono percepite come un fastidio, come un retaggio inutile, una fissazione di magistrati complottisti e acchiappa nuvole?». E, a ruota, ecco l’affondo all’arcinemico delle toghe, l’Uomo nero, il babau. «L’allora premier Berlusconi – ricorda Di Matteo di fronte a una platea che non aspettava altro che quell’orrido nome per spellarsi le mani – parlò subito di una perdita di tempo e di spreco di risorse pubbliche».
Eccolo il colpevole. Anzi, il Colpevole. L’imprenditore e il politico capace di tutto.
Da qui, tutto il resto è in discesa. «Io non mi rassegno – avverte Di Matteo – al fatto che quel messaggio abbia raggiunto l’obiettivo». E se non si rassegna un pm che ha l’obbligo dell’azione penale c’è da scommetterci che a breve ne sentiremo delle belle.
Il sillogismo è spiegato nel passaggio successivo: «I magistrati sentono un clima in cui questo tipo di indagini vengono considerate inutili ma abbiamo bisogno di capire e approfondire, è essenziale per la nostra democrazia. Si sente parlare con troppa superficialità del processo-trattativa: a uomini politici si contesta di aver fatto da cinghia di trasmissione da Riina fino al corpo politico dello Stato. Quando si dice che quel dialogo avrebbe evitato il peggio, si finge di non sapere quello che è attestato anche in sentenze definitive».
Di qui la necessità che la magistratura si sostituisca alla politica. Magari senza essere democraticamente eletta. Il perché lo spiega lo stesso Di Matteo: la mancanza di meccanismi di responsabilità politica ha creato una «sovraesposizione della magistratura. Tutto viene scaricato sulle spalle dei magistrati, soprattutto per quel che riguarda mafia e potere, come se non fosse configurabile una responsabilità di altro tipo, etica, disciplinare, deontologica».
Insomma costretti a forza a farsi politici per sostituire una politica indegna.
Gasparri replica a Di Matteo: lettura falsa e bugiarda
La “chiamata alle armi” trova, naturalmente, subito il Pd pronto. «Al pm Di Matteo – si offre il dem Davide Mattiello – voglio dire che c’è anche una politica che prende molto sul serio il nodo Stato-Mafia. Non tutti sono indifferenti o addirittura contrari. Esiste un piano che è quello della responsabilità politica e questo piano non conosce prescrizione».
Proprio con questa logica il circo Barnum dell’antimafia militante ha subìto una delle più cocenti sconfitte che si ricordino nella storia della Repubblica giudiziaria con il disastroso fallimento del processo Andreotti. La ferita che più brucia ai manettari dell’antimafia urlata e ululata.
Risponde per le rime a Di Matteo il presidente dei deputati di Fi, Renato Brunetta: «Il pm Di Matteo si atteggia volentieri a eroe perseguitato, ed è una scelta di cattivo gusto ma legittima. Ma non gli consentiamo di denigrare impunemente Berlusconi e il suo governo. Noi non accettiamo lezioni di antimafia. A lui faccio rispondere il presidente del Senato, Pietro Grasso, che da Procuratore Nazionale Antimafia disse testualmente: «Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia».
Rincara la dose Maurizio Gasparri: «Di Matteo dovrebbe ricordare che sotto il governo Berlusconi furono arrestati i più pericolosi latitanti della criminalità organizzata. Fu il governo Berlusconi a inasprire il 41bis, le norme sul carcere duro fondamentali per contrastare le organizzazioni criminali e a varare o le norme per una più intensa azione di contrasto economico alla mafia e leggi per il sequestro e la confisca dei beni. Durante il governo Berlusconi è stato varato il nuovo codice antimafia. Si continua in una lettura falsa e bugiarda».