«Il magistrato Di Maggio si oppose alle pressioni di Mannino sul 41bis»
Dopo anni di menzogne c’è chi restituisce finalmente l’onore a Francesco Di Maggio, l’ex-numero 2 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, morto nel 1996 a 48 anni, viene accusato da un pezzo della magistratura siciliana di aver fatto parte della trattativa Stato-mafia. Di Maggio, rivela ora deponendo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, Nicola Cristella, per alcuni mesi capo scorta del magistrato, avrebbe ricevuto pressioni dall’ex-politico siciliano Calogero Mannino sull’applicazione del carcere duro ad alcuni mafiosi ma non cedette.
La circostanza è importante per l’accusa che sostiene che tra i punti oggetto del presunto dialogo tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, negli anni delle stragi mafiose, ci fosse proprio l’alleggerimento del 41 bis ma, al contempo, restituisce piena dignità a un uomo come Di Maggio che ha sempre lottato a viso aperto contro le cosche arrivando perfino a dimettersi – cosa rarissima in Italia – in polemica con quanti lo avevano fregiato del “Premio Auschwitz 1994” per la sua intransigenza sul 41bis.
«A un certo punto – ha detto Cristella rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia – Di Maggio cominciò a innervosirsi per questioni di ufficio, perché c’erano pressioni di un politico siciliano sull’applicazione del carcere duro ad alcuni mafiosi. Il politico era Mannino. Mi disse: “non si può chiedere al figlio di un maresciallo dei carabinieri (il padre di Di Maggio era un maresciallo dei carabinieri a Barcellona Pozzo di Gotto, ndr) di scendere a patti con la mafia o con i delinquenti”».
Il testimone, che comunque rispetto alle precedenti deposizioni, sia processuali che rese in fase di indagine, ha sfumato le sue dichiarazioni, ha poi raccontato di avere accompagnato più volte Di Maggio a cene, in un ristorante romano, a cui partecipavano il funzionario del Sisde Umberto Bonaventura, l’ex-capo del Ros Gianpaolo Ganzer, l’ex-ufficiale del Ros Mario Mori – tra gli imputati del processo sulla trattativa – e un altro personaggio che arrivava in motorino di cui non conosce l’identità.
Il nome di Di Maggio è indissolubilmente legato alla cattura del boss Angelo Epaminonda che finì in carcere negli anni ’80 proprio grazie a un’inchiesta del magistrato, allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.
Trasferito a Roma all’ufficio dell’Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, all’epoca guidato da Domenico Sica, si dimise nel 1990 e divenne allora consulente giuridico dell’Agenzia antidroga dell’Onu a Vienna.
Nominato poi dal ministro della Giustizia Giovanni Conso vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria vi rimase per tre anni quando lasciò il Dap in polemica con il nuovo ministro della Giustizia Alfredo Biondi e tornò a Vienna. Acuto osservatore, al Secolo, che lo intervistò, raccontò, fra l’altro, come l’eccesso di libretti al portatore che aveva trovato in Austria consentisse un’attività di riciclaggio inaccettabile che andava stroncata. Illuminato, capace di un approccio manageriale e pratico ai problemi ma anche persona di grandissima umanità, fu lui, a inventarsi la Spes, Servizi Penitenziari di Solidarietà, con la maggioranza di capitale sociale degli enti pubblici, che doveva prendere commesse nel comparto dell’informatica per far lavorare i detenuti, anziché i privati consentendo un risparmio notevolissimo allo Stato oltreché stroncando alla radice il fenomeno delle mazzette sugli appalti in quel settore.
Irriso e attaccato frontalmente per la sua intransigenza nei confronti di quei detenuti mafiosi che non intendevano recuperarsi attraverso il carcere – e, per questo, gli venne affibbiato il “premio Auschwitz 1994” – era tutt’altro che tenero e, quindi, inviso alle cosche che lo vedevano come il fumo negli occhi. In un celebre discorso al Meeting ciellino di Rimini nell’agosto del 1994 con grande orgoglio e dignità e senza paura disse chiaro e tondo come la pensava fra gli applausi scroscianti: «Lo Stato si serve, la Comunità si serve e dello Stato non ci si serve – ammonì – A me importa davvero poco che il politico faccia le sue scelte strategiche, le faccia come meglio crede. Io ho un riferimento preciso che non posso in alcun modo eludere, né scavalcare: ed è la legalità. A me importa poco che ci siano i vecchi o i nuovi governanti, io ho un punto di riferimento preciso, la legalità. Se mi si chiedono strappi alla legalità, non posso che evidentemente fare le mie scelte conseguenti e dire: “Signori non ci sto. Me ne vado”».
La sua idea, che non ha mai abbandonato, era quella della differenziazione dei circuiti carcerari e, quindi, quella del 41bis ai mafiosi che non intendevano arrendersi e piegarsi allo Stato e di una detenzione non afflittiva ma di recupero per chi si voleva davvero redimere.
Sì, ammetteva, rivolgendosi a tutti quelli che «strepitano sul trattamento riservato ai detenuti differenziati ex 41 bis dell’ordinamento penitenziario, (i mafiosi cattivissimi come li chiamo io)», è «afflittivo il fatto di dover fare i colloqui con lo schermo di vetro che non consente al mafioso di toccare la mano dei propri bambini» ma, aggiungeva, «vogliamo ricordarci dei padri, delle madri, delle mogli, della vedova Schifani e di tutti gli altri che sono morti che quelle mani non possono più toccare?»
Poi, con l’approccio visionario e, al contempo, pragmatico che lo contraddistingueva, Di Maggio tratteggiò, senza infingimenti, di fronte alla platea e alle telecamere la sua idea dimostrando, oltretutto, un coraggio non indifferente perché rendeva nuovamente chiaro alla mafia che lui, figlio di carabiniere e uomo tutto d’un pezzo, non sarebbe mai retrocesso sul 41bis: «Il futuro del penitenziario è a tre velocità, a 3 circuiti: il circuito di chi non vuole sperare e che deve restare condannato alla sua sorte, perché non bisogna avere paura delle parole. Se il signor Riina vuole continuare a comandare Cosa nostra, non vuole venire dalla parte dello Stato e della legalità, può stare là dov’è: la coscienza non mi rimorde! Mi rimorde invece la coscienza per i tossicodipendenti, che non sono aiutati; per i condannati a pene bagatellari, che non hanno nessun tipo di aiuto e sono invece confusi in questa massa infernale, in mezzo a tutti gli altri». Per questi, appunto, Di Maggio, vedeva un percorso diverso, di recupero e reinserimento. Una concezione moderna che avrebbe anche fatto tornare i conti dello Stato. E che, magari, avrebbe consentito di impegnare ancora più risorse sul carcere duro da affibbiare ai mafiosi. Ma, aggiunse Di Maggio con amara ironia rivolgendosi a quanti lo crocifiggevano all’epoca per la sua intransigenza verso i mafiosi e per le sue idee verso il 41bis contro gli irriducibili di Cosa Nostra, «avendo vinto il “premio Auschtwitz” 1994, che era la cosa che agognavo di più, tra qualche settimana lascio l’amministrazione penitenziaria». Un addio in polemica contro chi lo riteneva troppo duro sul 41bis. Vent’anni dopo quel discorso e 19 anni dopo la sua morte, un pugno di magistrati accuseranno questo collega intransigente e tutto d’un pezzo, quest’uomo fermamente fedele alle istituzioni e alla legalità, votato a servire lo Stato e pronto a dire in faccia a Riina che mai gli avrebbe tolto il carcere duro se non si fosse inginocchiato di fronte allo Stato, di aver intavolato una trattativa Stato-mafia.
E, allora, non può che tornare alla mente quando, in un’altra vicenda simile, Leoluca Orlando, professionista dell’antimafia, puntò il dito contro Giovanni Falcone accusandolo di aver «tenuto chiusi nei cassetti» una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti di mafia. Oggi Orlando è ancora vivo, Falcone, invece, è stato ammazzato dalla mafia che, anch’egli come Francesco Di Maggio, combatteva a viso aperto e senza tentennamenti.