La storia di quel fascista dimenticato che scrisse “Giovinezza, giovinezza”…

6 Giu 2015 15:14 - di Antonio Pannullo
Salvator Gotta

Pochi oggi si ricordano di Salvator Gotta, narratore italiano scomparso il 7 giugno 1980, ma che nel secolo scorso fu uno degli autori che vendette più libri in assoluto.   Lui era piemontese di Montalto Dora (presso Torino), di famiglia benestante: il padre era magistrato e la madre Luigia parente di Cesare Pavese. Era nato nel 1887, per questo motivo fu sempre legato al Risorgimento e alla monarchia sabauda. Perciò non aderì, come tutti si attendevano, alla Repubblica Sociale Italiana. Cosa che probabilmente gli consentì intanto di non essere incarcerato ed epurato, ma soprattutto di continuare a lavorare e a scrivere. Molti dei sui libri furono portati sullo schermo e il suo Il piccolo alpino, addirittura in tv negli anni Ottanta, in uno sceneggiato intitolato Mino diretto da Gianfranco Albano. Tra l’altro Gotta, che all’anagrafe faceva Salvatore, alpino lo fu davvero. Si arruolò volontario nella Grande Guerra divenendo sottotenente di artiglieria. Fu congedato con il grado di tenente e una Medaglia d’Argento al Valor Militare. Ma prima della guerra si era sposato, nel 1916 aveva avuto il figlio Massimo e aveva preso ben due lauree a Torino, in Giurisprudenza e in Lettere. Aveva anche pubblicato il suo primo libro, la raccolta di novelle Prima del sonno, per Baldini e Castoldi. A Torino era entrato nella cerchia di intellettuali, più che altro crepuscolari, che organizzavano i sabati letterari: Gozzano, Graf, Giacosa, Pastonchi e altri. Si trovò anche al ritrovamento del corpo dello scrittore Emilio Salgari, che si suicidò sulle colline torinesi nel 1911.

Gotta divenne un fascista entusiasta della prima ora

Così, un intellettuale con questo retroterra culturale e politico non poteva che aderire entusiasticamente al fascismo, cosa che fece, poiché, come scrisse molti anni dopo, il mondo tardottocentesco era un mondo in disfacimento, la cui epopea stava per concludersi, e proprio il fascismo fu la levatrice di un’epoca e di un mondo nuovi. Fu membro della Società degli Autori, per la quale contribuì alla stesura della nuova legge sul diritto d’autore. L’anno successivo pubblicò quello che è forse il suo romanzo più famoso, Il piccolo alpino, in cui si narrano le avventura di Giacomino Rasi nel corso della Prima Guerra Mondiale e nel quale si esalta il valore formativo della montagna e ovviamente del patriottismo. Il libro, come detto fu trasposto in un film, nel 1940 e in una minierie tv nel 1986. Fino alla metà del ‘900 inoltre fu un best seller. Ma Salvator Gotta è ricordato anche per aver scritto le parole dell’inno ufficiale del fascismo, Giovinezza, che dal 1925 in poi veniva eseguito subito dopo la Marcia Reale in tutte le manifestazioni pubbliche, diventando così una sorta di inno ufficioso dell’Italia fascista. Giovinezza in realtà nascque nel 1909 come canto goliardico degli universitari a opera di Oxilia (che morì nella Grande Guerra) e Blanc. Nel 1911 gli Alpini lo adottarono come loro inno nella Campagna di Libia, per poi diventare, nel 1917, l’Inno degli Arditi e, nel 1919, degli Squadristi. A ogni versione le parole cambiavano. Fu però solo nel 1925, con l’intervento di Salvator Gotta, che divenne l’Inno trionfale del Partito fascista, veste nella quale ci è stato tramandato. Salvator Gotta in particolare introdusse concetti di fratellanza nazionale, di superamento della lotta di classe, di fedeltà a Mussolini, di orgoglio patriottico. Si censurano anche quanti “la patria rinnegar”, nella seconda parte della seconda strofa, frutto del clima di positiva euforia e fiducia nel fascismo che regnava allora in Italia, unito a una critica verso i vecchi nemici social-comunisti che in quei tempi venivano visti come traditori della patria. Come si è detto Gotta, vecchio monarchico risorgimentale, non aderì all Rsi, e dopo la guerra continuò a lavorare indisturbato. Molti ricorderanno certamente la sua curioso rubrica su Topolino “Salvator Gotta risponde a…”, nella quale lo scrittore interagiva con i piccoli lettori del settimanale della Mondadori. Dopo la guerra si ritirò sulla riviera ligure, dove passava le estati da ragazzo, dove morì. Nel secondo dopoguerra fu in qualche modo condannato all’oblìo, sia perché il suo linguaggio era considerato arcaico, ma sia soprattutto perché era macchiato della colpa originale che l’intellighenzia democratica e antifascista non poteva accettare: fu un convinto fascista. Perciò, non potendolo perseguitare, fu semplicemente allontanato dai circuiti che contavano, i suoi libri si vendettero sempre meno e oggi nei grandi cataloghi della case editrici che contano non molte sue opere compaiono. Ma Gotta rimane uno dei più proflifici autori italiani, un grande scrittore che seppe parlare soprattutto ai bambini e agli adolescenti, contribuendo alla loro formazione con valori intramontabili.

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