Il “Financial Times” scettico su Renzi: «Ma quand’è che farà sul serio?»
Ma Matteo Renzi fa sul serio o è il solito bluff? A chiederselo è il Financial Times, giornale-istituzione della Gran Bretagna sinonimo di autorevolezza in tutto il mondo. In un servizio dedicato all’Italia, il Financial stila una sorta di bilancio provvisorio dell’attuale governo non senza averne prima constatato il respiro un po’ affannoso. Colpa – scrive in sostanza il giornale londinese – anche dell’indebolimento del vento che oltre un anno fa portò Renzi a scalare prima il partito e poi a scalzare Enrico Letta da Palazzo Chigi. Il problema, però, ora sembra proprio il premier. Da qui l’invito «a darsi una mossa per mostrare che fa sul serio».
Il Ft: «Finora Renzi ha avuto il vento a favore»
Non è una vera stroncatura quella pubblicata dal quotidiano della City. Rappresenta piuttosto un giudizio sospeso nell’attesa di capire se Renzi – «a cui, come a Silvio Berlusconi, piace presentarsi come il salvatore dell’Italia» – fa sul serio oppure no. Ma qual è il vento che ha finora favorevolmente sospinto Renzi o – per usare le parole del quotidiano londinese – ne ha benevolmente accarezzato «l’audace sfrontatezza» (letteralmente chutzpah) nel corso della sua navigazione da premier? Eccolo: euro più debole, prezzi del petrolio più bassi, il quantitative easing concesso dalla Bce guidata da Mario Draghi. Il Ft non omette di scrivere «che negli ultimi 12 mesi investimenti esteri sono quadruplicati» ma non può fare a meno di ricordare che «l’economia italiana mostra solo dei deboli segnali di ripresa».
Bruxelles non permetterà al premier il taglio delle tasse in deficit
Se «il vento che spingeva Renzi sta scemando», per il Financial Times è responsabilità soprattutto «dei tempi delle riforme» che «continuano a slittare»: quella del Senato, della pubblica amministrazione e quella fiscale. La stoccata finale il Ft la riserva all’annunciato taglio delle tasse da parte nel prossimo triennio. Ma «Renzi – avverte il giornale londinese – non può pensare seriamente di andare a Bruxelles chiedendo di portare il deficit al 2,6 per cento del Pil senza un esteso e impopolare taglio alla costosa macchina italiana della pubblica amministrazione». Un taglio – si può molto più modestamente aggiungere – che molto difficilmente i suoi oppositori interni gli consentiranno di portare a termine.