Terrorismo, nel mirino degli arrestati una base militare. Ritrovato “manuale”
La base militare di Ghedi, nel bresciano, l’azienda di ortofrutta nella quale lavorava uno dei due e le forze dell’ordine. Erano gli obiettivi su cui si stavano concentrando i due uomini arrestati a Brescia dalla Digos di Milano con l’accusa di terrorismo: il tunisino Lassaad Briki, di 35 anni, e il pakistano Muhammad Waqas, di 27.
I contatti in Siria
Dunque, come spiegato dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli, i due si muovevano sotto «due diversi profili»: quello propagandistico delle foto con minacce postate in rete da account che si richiamavano all’Isis e che avevano come sfondo luoghi simbolo di Roma e Milano e quello operativo, «di cui – ha chiarito il magistrato – parlavano continuamente nell’ultimo periodo». «Erano in una fase crescente di azione, parlavano di come raggiungere lo Stato islamico e di come colpire gli obiettivi in Italia, di come procurarsi le armi, anche se non avevano al momento trovato il canale per averle», ha spiegato poi il capo della Digos milanese Claudio Ciccimarra, sottolineando che il tunisino era in contatto con un soggetto che sta combattendo per l’Isis in Siria e aveva «una rete di relazioni significative».
Il manuale del «mujahidin occidentale»
Per gli inquirenti nei piani dei due arrestati c’era anche un viaggio in Siria. «Erano consapevoli di non avere un addestramento militare consolidato», ha spiegato ancora Romanelli, ricordando però che «ci sono azioni che non necessitano di addestramento militare». Inoltre, dalle intercettazioni è emerso che, in particolare il tunisino, «a prescindere dall’addestramento per partire per la Siria, mostrava preferenza per azioni di attentati da compiere in Italia». Ed è stato stato sempre Waqas, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, a scaricare dalla rete il manuale per i “mujahidin occidentali”, per poi passarlo anche al pakistano. Il manuale si intitola How to survive in the West ed è una guida di «autoaddestramento» composta di 12 capitoli. Si va da «come nascondere l’identità da estremista» a come «guadagnare soldi» dalla «internet privacy» alle armi «primitive e moderne» e alle «bombe fatte in casa», fino allo «scappare per salvarsi».
Tra le foto la spiaggia della strage di Sousse
Secondo Romanelli, non c’è mai stato «un pericolo concreto con il passaggio dalle parole all’azione», ma è indubbio che i due si siano fatti più scaltri da quanto, per la prima volta in aprile, sulla stampa sono apparse le prime foto con i messaggi minatori che avevano postato sul web: i due da quel momento hanno rallentato la loro attività telematica fino all’oscuramento degli account di Twitter usati per la propaganda jihadista. Inoltre, per il direttore del Servizio centrale antiterrorismo della polizia di Stato Lamberto Giannini, l’«ingenuità» di postare le foto minatorie «non è fattore di minore pericolosità, anche perché i due volevano portare un messaggio di paura». Tra le foto postate ve ne era anche una della spiaggia di Sousse in Tunisia dopo l’attentato delle scorse settimane, scattata dal tunisino mentre era in visita alla sua famiglia per il Ramadan, e un’altra di un biglietto su cui era scritto «dichiariamo la Bay’a al Califfo» e che ha dato il nome all’operazione antiterrorismo “Bay’a”, ossia la fedeltà dichiarata allo Stato islamico.