I giudici: «Carcere duro a Provenzano, oramai inerte, per farlo sopravvivere»

24 Set 2015 18:18 - di Paolo Lami

Il carcere duro al boss Provenzano oramai inerte e inebetito? Non serve più per tutelare la società dalla sua pericolosità né dal rischio che possa mandare “messaggi” mafiosi all’esterno. Il regime di massima sicurezza è diventato invece necessario per curare meglio l’ex-primula rossa di Cosa Nostra che giace oramai da tempo come un sacco vuoto nel letto a causa delle numerose patologie di cui soffre.
Sono le conclusioni dei giudici della Cassazione che giustificano così la necessità di continuare a tenere recluso, con le regole del carcere duro, quello che fino a pochi anni fa era l’uomo più ricercato del mondo.
In pratica, spiega la Suprema Corte, le condizioni di salute di Bernardo Provenzano sono «gravi» ma, paradossalmente, se lasciasse il ricovero in regime di 41bis all’ospedale San Paolo di Milano,  in camera di sicurezza, per essere ricoverato in un reparto ospedaliero comune, sarebbe a «rischio sopravvivenza», per la «promiscuità» e le cure che gli verrebbe fatalmente meno dedicate.
Le patologie di cui soffre l’ex-capo di Cosa Nostra – condannato all’ergastolo – sono, secondo i giudici di Piazza Cavour, «plurime e gravi di tipo invalidante»: grave decadimento cognitivo, i problemi dei movimenti involontari, ipertensione arteriosa, un’infezione cronica del fegato, oltre alle conseguenze degli interventi subiti da Provenzano per lo svuotamento di un ematoma da trauma cranico, per l’asportazione della tiroide e per il tumore alla prostata.
Proprio a fronte di questa situazione, la difesa di Provenzano aveva fatto ricorso alla Suprema Corte contro il ricovero nella camera ospedaliera di massima sicurezza – convalidato dal Tribunale di sorveglianza di Milano lo scorso tre ottobre – chiedendo che l’anziano boss di 83 anni, che ormai giace sempre «allettato», sia spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza del San Paolo, dove c’è un settore per curare i detenuti “ordinari”.
Ad avviso della difesa, inoltre, Provenzano – che ha nel figlio Angelo Provenzano l’amministratore di sostegno – «non è più in grado, nè fisicamente, nè mentalmente, di percepire l’espiazione di alcuna pena» e quindi la sua è una situazione solo «astrattamente detentiva» e del tutto «incompatibile» con il regime di isolamento.
Ma la Cassazione replica di aver trovato corretto il verdetto di merito dato che Provenzano «risponde alle terapie». E proprio questo starebbe a significare, secondo gli ermellini, che il «peculiare regime» detentivo è compatibile «con le pur gravi condizioni di salute accertate». E poi – aggiunge la Suprema Corte – c’è il «rischio per la stessa possibilità di sopravvivenza del detenuto» se «la prosecuzione della sua degenza» avvenisse «nel meno rigoroso regime della detenzione domiciliare», sempre in ospedale, perchè avverrebbe «in un contesto di promiscuità in cui l’assistenza sanitaria non gli potrebbe essere assicurata con altrettanta efficacia».
In conclusione, i supremi giudici – sentenza 38813 depositata dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione – hanno ritenuto corretta la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano «fondamentalmente incentrata sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto».
In pratica, l’applicazione del 41bis per Provenzano è diventata ora una modalità necessaria per curare meglio l’uomo che per decenni è stato il ricercato numero uno e che ora è inerte e incosciente nel suo letto d’ospedale.

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