Prima a Berlusconi, ora la guerra a Renzi. E il Pd scopre le “toghe rosse”

27 Ott 2015 14:09 - di Francesca De Ambra

Se è vero che i nemici di Berlusconi, e l’Anm tra questi, sono diventati i nemici di Renzi, ne consegue in misura altrettanto verosimile che quelle che un tempo venivano definite “toghe rosse” ormai si considerano e si atteggiano a controparte di ogni governo. Lo sapevamo da tempo, ma da tempo i soliti bene informati assicuravano che l’obiettivo era il Cavaliere e che una volta fuori gioco lui, tutto sarebbe ordinatamente rifluito nell’alveo della fisiologica separazione dei poteri. Nulla di più falso: Berlusconi non abita più a Palazzo Chigi, è stato persino espulso dal Senato ma il tema giustizia è ancora tabù.

L’attacco delle “toghe rosse” a Renzi conferma che il problema non era Berlusconi

Non stupisce dunque più di tanto se Rodolfo Sabelli, leader dell’Anm, abbia accusato il governo di perseguire una “strategia per delegittimare” la magistratura. Si tratta di parole scelte con cura e soprattutto rivelatrici del concetto che alcune toghe hanno del proprio ruolo. In un sistema basato sulla separazione dei poteri, infatti, l’ordine giudiziario trae forza e legittimazione esclusivamente dalla propria funzione di presidio di giustizia. Nel nostro sistema malato, invece, molti pm non fanno mistero di esercitare l’azione penale in una logica di consenso finalizzata a ricercare una legittimazione popolare che finisce per renderli un contropotere. È il solco tracciato ieri dai vari Di Pietro, Ingroia e De Magistris, ormai stabilmente passati dall'”altra parte”, ma ampliato e difeso oggi da quei loro ex-colleghi che parlano e ragionano da leader politici nonostante la toga poggi ancora sulle loro spalle. Basta ascoltarne o leggerne le interviste a base di termini come “dialogo”, “scontro”, “confronto”, “isolamento”, “alleanze” per rendersi conto che le “toghe rosse” neanche si sforzano più di apparire imparziali né tantomeno si preoccupano di dissimulare la carica dirompente sottesa alla loro azione. Ne offrono anzi una declinazione salvifica, necessaria a sua volta a generare consenso. E così il cerchio si chiude disegnando un vortice capace di risucchiare in un buco nero quel che residua dello stato di diritto nel nostro Paese.

Il ministro Orlando è un mediatore a oltranza

È vero che tale situazione non nasce oggi, ma è anche vero che l’assenza di Berlusconi dall’orizzonte politico rende oggi possibile quel che ieri non lo era, cioè una riforma in grado di restituire autorevolezza, credibilità ed efficienza alla funzione giudiziaria. È esattamente qui che “si parrà la nobilitate” del governo Renzi, i cui passi fin qui compiuti risultano tuttavia contraddittori e improntati a un legnoso tatticismo, arte in cui eccelle il ministro Orlando, cioè proprio colui che in teoria quella riforma sarebbe tenuto a realizzarla. Finora il Guardasigilli ha mediato su tutto, anche a costo di  qualche caduta di ruolo, come ha impietosamente evidenziato la risposta all’invettiva di Sabelli («non abbiamo fatto nulla che ci faccia meritare l’attacco dei magistrati») che ha finito per riconoscere così alle “toghe rosse” un “diritto” di contraltare politico ignoto a qualsiasi nazione civile. È fin troppo evidente che l’emergenza di una parte della magistratura ormai esondata dal tracciato costituzionale richiede ora ben altre doti.

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