Quella destra al seguito di Rubei e Buontempo nell’Irpinia distrutta
Terremoto in Irpinia 35 anni dopo. Oggi è vietato anche solo pronunciare la parola “ricostruzione” a proposito della tragedia che il 23 novembre 1980 distrusse la Campania provocando 2750 morti, quasi 9000 feriti e 350mila senzatetto. E si capisce: la maggior parte dei sindaci dei paesi colpiti dal sisma hanno voglia di guardare avanti e di lasciarsi alle spalle le polemiche che si trascinano da decenni sullo spreco di denaro pubblico, miliardi persi nei meandri del malaffare, miliardi oggetto di inchieste giudiziarie e commissioni parlamentari (che in Italia sono sempre andate di gran moda). La Corte dei Conti, tirando le somme sui vari stanziamenti, informa che la cifra stanziata è arrivata a 32mila miliardi 363milioni e 593.779 euro. Mai arrivati a destinazione ben 250 milioni.
Irpinia, la destra con le mani nel fango
In pochi sanno, invece, che la destra dell’epoca, quella “immensa e rossa”, quella uscita dalle secche del nostalgismo militante, insieme a molti “ragazzi del Fronte” degli anni ’80, si rimboccò le maniche al fianco dei terremotati con una mobilitazione massiccia, miracolosa per i mezzi dell’epoca. Senza cellulare, senza web, senza una lira, senza coperture di partito. Ad animare il campo in Irpinia, chiamando a raccolta centinaia di volontari, fu Giampiero Rubei, morto nell’aprile del 2015.
Centinaia di volontari con Rubei
Il tam tam per l’“arruolamento” volontario e la raccolta fondi partì a tempo di record dai microfoni di Radio Alternativa, un altro miracolo della fantasia e della cocciutaggine di un manipolo di sognatori di giorno. Ispiratore dei Campi Hobbit, massima espressione del mondo culturale alternativo, inventore dell’Alexanderplatz, un passato da militante e segretario della storica sezione missina di Monteverde, Rubei guidò la trasferta in Irpinia e allestì il campo. Nel 1982 la rivista Linea, diretta da Pino Rauti, scelse di pubblicare in prima pagina una foto (che pubblichiamo) del campo con Rubei, Teodoro Buontempo e una giovanissima militante romana con le galosce affondate nel fango.
Una terra che non c’è più
Nel suo romanzo Il paese dei Coppoloni Vinicio Capossela, di origini irpine, racconta una terra rasa al suolo, che non esiste più o che vive soltanto di nostalgia struggente. È un dono dell’artista alla sua terra con un’opera costata più di 20 anni di lavoro. Il tocco di Capossela è visionario, eccentrico, talvolta naïf con i suoi personaggi a volte mitologici e leggendari. È uno sguardo incantato che coglie la bellezza tenace racchiusa nei piccoli borghi di Calitri e Cairano. «Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando?», chiede il viandante nelle terre dei padri.