Mafia, chiesti 4 anni per il generale Mori: il flop di Ingroia non frena i giudici

18 Gen 2016 19:52 - di Redazione

In comune con l’impianto messo su dai colleghi della Procura rimane, forse, solo il richiamo al tradimento dei valori a cui aveva giurato fedeltà. Per il resto, quello pensato ed esposto dal pg Roberto Scarpinato, costretto a fare i conti con una pesante sentenza di assoluzione di primo grado, è un “film” assai diverso rispetto a quello rappresentato al tribunale dai pm all’epoca guidati da Antonio Ingroia. Non potendo prescindere dalle prove raccolte, dal no della corte d’appello alla richiesta di allargare gli orizzonti del processo e dai tanti dubbi sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, Roberto Scarpinato, dunque, cambia scenario e spiazza i giudici modificando le accuse a carico di Mario Mori, ex numero uno del Ros, e Mauro Obinu, colonnello per anni a fianco di Mori e ora ai Servizi. Rimane, per entrambi, il reato di favoreggiamento della latitanza del boss Bernardo Provenzano, ma nella nuova prospettazione della Procura generale cadono due aggravanti: quella dell’avere agito per favorire Cosa nostra e quella che i media hanno semplicisticamente denominato come l’aggravante della trattativa. Un mutamento di rotta che, ovviamente, ha contraccolpi nella richiesta di pena: 4 anni e 6 mesi per Mori, 3 e 6 mesi per Obinu contro i 9 e gli 8 anni del primo grado. Mario Mori e Mauro Obinu, per la Procura generale, dunque, avrebbero “semplicemente” favorito Provenzano, tacendo ad esempio alla Procura le informazioni avute dal colonnello Michele Riccio sui favoreggiatori del boss, non approfondendo gli spunti fatti filtrare dal confidente Luigi Ilardo, mentendo ai pm. Perché? «Non devo provarlo – ha tentato di spiegare Scarpinato – la legge non lo richiede, essendo il favoreggiamento un reato a dolo generico. Il movente non conta».

Cambia la tesi su Mori ma non la convinzione della colpevolezza

Rispetto alla tesi dei pm di primo grado è una rivoluzione, è innegabile. Per la Procura, arrivata a contestare le aggravanti mafiosa e della trattativa quasi a fine processo, i moventi e il quadro erano essenziali. E il mancato blitz del 31 ottobre del 1995 e le inerzie investigative che garantirono per anni l’impunità al padrino corleonese erano finalizzati ad aiutare l’ala moderata di Cosa nostra, guidata appunto da Provenzano, e a realizzare il patto tra pezzi dello Stato e mafiosi che vedeva nella salvezza del boss uno dei suoi nodi. “Non è importante”, torna a sottolineare Scarpinato che, però, fa intravedere un contesto più complesso, il suo movente, quello che il no della corte, che ha negato una riapertura dell’istruttoria dibattimentale concentrando la sua attenzione sul fatto contestato agli imputati, gli ha impedito di portare in aula. Mori, “personalità doppia che in tutta la carriera ha sempre deviato dalle regole” dice il pg, avrebbe aiutato Provenzano non in nome della trattativa né per agevolare la mafia ma, come fatto in passato ad esempio non consentendo la perquisizione del covo di Riina, per favorire inconfessabili interessi extraistituzionali. L’impressione è di un “gioco” al ribasso con qualche vuoto logico dettato dalla fragilità della tesi della cosiddetta trattativa, al vaglio in contemporanea di una corte d’assise, e dalla difficoltà di provare che due ufficiali dell’Arma abbiano agito per favorire la mafia. Resta dunque il tentativo di fare intravedere scenari complessi, mai entrati però nel dibattimento, pur “puntando” al minimo, a quel favoreggiamento semplice al capo di Cosa nostra che si pensa provato e per cui si ritiene possibile la condanna.

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