Caro Battista, anche mio padre era fascista. Lui non si arrese e non l’ho ucciso
Più che una recensione … una “confessione”. Anche mio padre era … fascista, come quello di Pierluigi Battista, giornalista di successo ed autore di Mio padre era fascista, recentemente edito da Mondadori. Nel suo racconto autobiografico Battista, dopo averne disprezzato, in gioventù, la coerenza politica e intellettuale, si riconcilia post-mortem con il padre, avvocato di successo e insieme fascista non pentito, professionista stimato e nello stesso “ex repubblichino”, orgoglioso del suo passato.
Fascista per scelta, la generazione che non si è arresa
È l’onore delle armi a quella che Giorgio Pisanò chiamava la «generazione che non si è arresa», quella degli italiani nati nella prima metà degli Anni Venti del ‘900, fascisti per nascita, durante il Ventennio, poi dal 1943, fascisti per scelta, per libera scelta. A differenza di Battista io non ho bisogno di “ritrovare” il Padre. Non lo avevo mai “ucciso”, nella foga della contestazione. Ci avevo discusso certamente, come ogni figlio. Ma ne avevo condiviso le tensioni ideali, il suo essere “oltre la destra e la sinistra”, borghese e antiborghese insieme, dirigente affermato e insieme figlio del popolo, socialmente appagato e nello stesso tempo critico verso il sistema (quello della partitocrazia, della sconfitta, del capitalismo rampante).
Nella fotografia fatta da Battista non ci vedo tutto mio padre, che non ricordo “lugubre” ed “esacerbato”, anche nei suoi racconti di guerra, in quella scheggia portata nelle sue carni per quella ferita sulla linea della Garfagnana, nella canea fratricida del 25 aprile. E tuttavia l’immagine di Battista è una bella occasione per ripensare tutta una generazione, al di fuori delle falsificazioni di parte, delle discriminazioni, delle interpretazioni partigiane: «C’era – scrive Battista – mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».
C’è tutta una generazione in questa immagine: il dramma degli “esclusi” e il loro ruolo essenziale nella “ricostruzione” post bellica, l’orgoglio di un’appartenenza ed i compromessi della quotidianità, la memoria e la speranza inesauribile di un’Italia migliore.
Il pubblico ed il privato inevitabilmente si confondono. Ognuno di noi, figli di “certi” padri, porta in cuore ricordi ed esempi, che un po’ ci hanno segnato. A mio padre devo il rifiuto di ogni settarismo, una certa curiosità intellettuale, quella che faceva entrare a casa nostra giornali e libri così diversi tra loro: da L’ Espresso a Candido, dal Libretto rosso di Mao Tse-Tung a Italia fascista in piedi! di Nino Tripodi. Gli devo la passione per la Politica e, quasi un battesimo del fuoco, il primo comizio del Msi, con il primo ucciso per mano antifascista, Ugo Venturini, che ci ha fatti stare dalla stessa parte, con gli inevitabili distinguo generazionali, con sensibilità diverse.
E’ tempo che di questi padri, molti dei quali ormai scomparsi, si inizi a parlare con spirito libero, come ha fatto Battista. Al di là della sua vicenda personale, il suo libro è un invito a guardare all’interno delle famiglie italiani, a scoprire memorie ed appartenenze, esempi e vite vissute, per troppi anni negate. Senza nostalgie certamente. Ma soprattutto senza infingimenti. Per ritrovare con i “padri” il senso di una Storia nazionale finalmente “ricomposta”, dopo troppi silenzi e falsificazioni, a cui rendere “l’onore della armi”, quello che, secondo il codice cavalleresco, si riconosce all’avversario sconfitto che ha combattuto con valore.