«Così diventai cannibale»: il racconto choc del sopravvissuto a un distrastro aereo

20 Feb 2016 19:50 - di Ezio Miles

Torna la storia del disastro aereo del 1972 sulle Ande. La vicenda fu raccontata anche in un film. I superstiti, furono trovati dopo moltissimi giorni di ricerche. Per sopravvivere arrivarono al punto di cibarsi dei corpi dei passeggeri morti nell’impatto dell’aereo al suolo. Se ne parla nel  libro di Roberto Canessa e Pablo Vierci, I Had To Survive: How A Plane Crash In The Andes Inspired My Calling To Save Livesn.  Ecco lo sconvolgente racconto di un  sopravvissuto, come emerge dalla traduzione degli estratti del libro pubblicati dal Daily Mail e proposti dal sito Dagospia. «Mi sono svegliato pensando che fossi nel mezzo di un incubo, solo per scoprire che era tutto vero. Quel che era sopravvissuto della fusoliera giaceva su un fianco nella neve, con otto finestrini rivolti al cielo e cinque premuti contro il ghiaccio sottostante. Cavi e fili pendevano dal soffitto». Il sopravvissuto e i suoi amici (una squadra di rugby) non si perdono però d’animo.«Nonostante il nostro dolore e choc, non ci siamo lasciati sopraffare. Pur non avendo alcun contatto radio o telefonico, eravamo convinti che i soccorsi sarebbero arrivati presto». Ma igiorni passavano e nulla accadeva. « I soccorsi non sono arrivati quel giorno né quello dopo, né dopo ancora. Mentivamo a noi stessi: ”Non è un salvataggio facile”, ci dicevamo; avranno bisogno di elicotteri. E “solo una questione di tempo”. In alto, sopra di noi, vedevamo la rotta degli aerei commerciali, pezzi di un mondo che andava avanti senza di noi».

La situazione di quel gruppo sopravvissuto al disastro aereo si fa sempre più drammatica. «Delle 45 persone a bordo, 12 erano morte nello schianto e altre sei nei giorni successivi. Eravamo rimasti in 27, rannicchiati all’interno della cabina. Ma non eravamo più di questo mondo. Eravamo diventati creature di un altro pianeta». Comincia a farsi sentire la mancanza di cibo. «Avevamo da tempo esaurito le magre provviste trovate a bordo, e non c’era vegetazione o animali intorno a noi. Dopo pochi giorni abbiamo cominciato a sentire che i nostri corpi stavano consumandosi da soli. In poco tempo saremmo diventati troppo deboli per sopravvivere agli effetti del digiuno». Di giorno in giorno si fa strada nella mente del sopravvissuto e degli altri superstiti un’idea atroce. «Sapevamo la risposta, ma il solo pensiero era tremendo. I corpi dei nostri amici e compagni di squadra, preservati dalla neve e dal ghiaccio, contenevano vitali proteine che ci avrebbero permesso di sopravvivere. Ma come avremmo potuto farlo?». «La vera fame è atroce, istintiva, primordiale», ricorda il sopravvissuto. Ecco come la fame, la solitudine, il freddo e la disperazione possono trasformare la mente di un uomo civilizzato.  «A poco a poco, ognuno di noi è arrivato alla medesima conclusione. E quando lo abbiamo fatto, è stato irreversibile. È stato il nostro addio all’innocenza. Non saremo mai più stati gli stessi. Non dimenticherò mai la prima incisione, nove giorni dopo l’incidente, ogni uomo solo con la sua coscienza, lassù tra quelle montagne infinite, in una giornata più fredda e grigia di qualsiasi altra». Di qui la tremenda rottura di un tabù e il ritorno a una condizione ancestrale. «Con una lametta o scheggia di vetro in mano, abbiamo tagliato via i vestiti a un corpo, senza neanche riuscire a guardarne il volto. Abbiamo steso le strisce sottili di carne congelata su un pezzo di lamiera…».

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