Totti, “bandiera” strappata. Nello sport (e in politica) si dimentica troppo in fretta

22 Feb 2016 12:15 - di Silvano Moffa

Nello sport come in politica è difficile dirsi addio. E quando, per una ragione o per un’altra, arriva l’ora in cui devi farti da parte, o ti mettono da parte, tutto si complica maledettamente. È la legge del tempo e della vita, si dice. Sarà anche così. Un qualcosa di ineluttabile nelle fasi che si accavallano, nelle storie che si susseguono, nelle circostanze che ricorrono. E’ l’attimo che sospende nel vuoto un destino. Il punto di una presa di coscienza. Il faro che si accende sulla tua stessa esistenza. Una luce che acceca, nel buio dell’inquietudine che ti tormenta. Ti chiedi perché, e non trovi risposta confortante ai tanti interrogativi che affollano la mente. Sei solo con te stesso. Solo, tremendamente solo. La vicenda di Francesco Totti parla da sé. Sul piano sportivo, il campione che avverte di non far più parte di un progetto della società, di esser considerato un peso, un orpello, qualcosa di inutile e ingombrante dopo aver issato trofei, emozionato ed esaltato tifosi, incarnato un simbolo di quella Roma Capoccia che è storia, tradizione, pura identità per le carni vive di una comunità (e quella del calcio, come ricordava  Desmond Morris, è una “comunità”a tutti gli effetti), è un campione che soffre l’abbandono, la “mancanza di rispetto”, una marginalità non reputata giusta insieme al genuino dolore di un declino che la sua mente e il suo corpo ancora rifiutano di accettare. Sovviene una domanda: ma è giusto trattare così un campione, una “bandiera”, un idolo? No, non è giusto. Non lo è nello sport, come nella politica. Non sembri azzardato il paragone. Tutt’altro. Leggiamo una intervista di Achille Occhetto su Il Fatto Quotidiano. Una intervista amara. Sulla sinistra, che non c’è. Sul renzismo, che è tutto e il contrario di tutto. Ma non è questo il punto che qui ci interessa. E’ quella frase finale dell’uomo della Bolognina, il segretario che mise in archivio il Pci, dopo la caduta del Muro. “La chiamano ancora?”, chiede il giornalista. E lui: “Non più ,mi lasciano in pace”. “Oltre queste mura, dove si sente a casa, dove sta a suo agio sul piano umano e culturale?”. “Da nessun’altra parte se non nella mia memoria; la memoria è la mia più grande casa”. Nel vortice che scende impetuoso, le bandiere non si ammainano, si abbattono. La furia del vento le strappa e trascina via. Accadde anche per la Thatcher messa alla berlina da un intraprendente David Cameron, nel nome della nuova generazione che non voleva restare prigioniera del passato. Di esempi potremmo farne a iosa. Nello sport come in politica, appunto. Eppure, di un mondo che lacera le bandiere, e non sa più rispettarle, non c’è ragione alcuna di essere orgogliosi. O no?

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