Focus – Dare forza alle politiche dell’offerta per uscire dalla crisi?
Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale avanzate nel rapporto “World Economic Outlook”, il Pil italiano si attesterà a +0,8% nel 2021, ad un tasso di crescita, dunque, tra i più bassi fra le economie dell’Eurozona. In particolare, la disoccupazione dovrebbe passare dall’11,9% del 2015, all’11,4% nel 2016, per poi scendere ulteriormente al 10,9% nel 2017. Viceversa, i dati del Fmi stimano per il 2016 una crescita globale intorno al +3,2%, con una riduzione, tuttavia, di circa 0,2 punti in meno rispetto alle previsione formulata nel gennaio scorso. Dunque un contesto di crescita, sia pur debole e con prospettive non esaltanti, ma dove emerge con chiarezza che il nostro Paese non riesce a trarre vantaggio ed a stupirci come, invece, ha saputo fare anche in un non lontanissimo passato. Ma perché la nostra economia non decolla e non si dimostra capace di profittare del (tutto sommato) positivo contesto internazionale?
Di certo il livello generale dei prezzi interni appare debole, anzi, le analisi confermano che esso è in discesa. Ma questo non spiega la stagnazione, né è il sintomo. Infatti, è noto che il livello generale dei prezzi dipende dall’incontro tra la domanda e l’offerta globale. Il fatto che scendano può vuol dire che l’offerta è sovrabbondante. Le imprese quando stabiliscono i prezzi tengono conto del livello generale dei salari che, a loro volta, sono una funzione del tasso di disoccupazione e delle componenti esogene legate ai sistemi di protezione dei lavoratori (come i salari minimi garantiti, le indennità di disoccupazione, ecc.), nonché, dal livello generale dei prezzi attesi. Per cui se, a parità di condizioni, ci sono aspettative di prezzi in crescita, si genera una crescita dei salari e, conseguentemente, una crescita del livello generale dei prezzi; peraltro verso, incide sul livello generale dei prezzi il marke up che le imprese lucrano rispetto ai costi che sostengono (in particolare, rispetto ai salari pagati). Ora, in sede di contrattazione salariale e di formulazione dei listini dei prezzi di vendila l’ipotesi più semplice da fare è che il livello generale dei prezzi futuri sia eguale a quello sperimentato nel periodo corrente, in concreto, cioè si può ritenere che i prezzi attuali siano quelli che è lecito aspettarsi nel futuro.
Due sono le strade per la crescita
Se le cose stanno effettivamente cosi, la discesa del livello generale dei prezzi, invece, dovrebbe generare un nuovo equilibrio ad un livello di reddito maggiore, capace per tale via di assorbire almeno in parte la disoccupazione. Cosi, invece, evidentemente non accade e, dunque, non resta che chiedersi il perché. Proprio il Keynes, analizzando la crisi economica del suo tempo, ebbe modo di osservare che i prezzi ed i salari anche in un contesto di crisi rimangono stabili, anche per lungo tempo. I prezzi sono perciò più sensibili alla concorrenza ed i salari, in presenza di sostegni alla disoccupazione, non si flettono quanto dovrebbero. Le imprese, infatti, modificano i prezzi a seguito di una pressione concorrenziale che riduce il proprio marke up, mentre i salari sono sensibili al livello generale della disoccupazione ed alla riduzione dei livelli di protezione dei lavoratori. Dunque, nel caso italiano, solo, l’effetto combinato di politiche attive sull’offerta, determinerebbe una concreta riduzione del tasso di disoccupazione. Allora, tirando le file del complesso discorso fatto, se il livello generale dei prezzi ed il reddito nazionale (Pil) dipendono dall’incontro tra domanda ed offerta globale, data l’offerta globale e posto che ci sono risorse sottoccupate, si potrebbe dare corpo ad una politica economica di crescita solo con un aumento della domanda. Se la domanda di beni e servizi proveniente dall’estero si dimostra insufficiente ad assorbire la disoccupazione, una politica economica ragionevole dovrebbe incrementare la domanda interna. Qui le strade sono due, la politica monetaria e quella fiscale. La politica monetaria è di fatto sottratta al governo italiano, restando appannaggio della BCE.
La politica fiscale
Resta dunque la politica fiscale? La presenza di un debito nei conti pubblici che risulta oltremodo elevato (2.171,7 milioni di euro, al fine 2015) impone la necessità da parte del governo, del suo contenimento nei limiti e con le modalità prestabilite dagli accordi con Bruxelles, e dunque, impone di provvedere oltre alla copertura finanziaria nei tempi e secondo le modalità di scadenza dai titoli stessi compresi gli interessi, di ricorrere nel breve periodo a politiche di “risanamento” dei conti pubblici all’interno di politiche di bilancio pubbliche restrittive o di rigore con abbattimento del deficit pubblico o creazione di avanzo primario. All’avanzo primario si perviene tramite aumento delle entrate, con aumento delle imposte e/o recupero dell’evasione fiscale, oppure, riduzione della spesa pubblica. Non esistono, purtroppo, in merito altre soluzioni miracolose, e di tutta evidenza, poco o nessun margine resta a politiche di bilancio di tipo espansivo, che stimolino la crescita economica (e relativo Pil) con aumento del relativo gettito fiscale. I tanti che le prospettano soluzioni miracolose, hanno probabilmente in mente altri fini che quello dell’uscita del nostro Paese dalla crisi. A bocce ferme, dunque, non sembra esserci altra soluzione che concentrarsi su una politica dell’offerta, correndo il serio rischio, tuttavia, che per un non breve periodo non ci siano risultati apprezzabili.
Attacco alle clientele parassitarie
Nella sostanza, si tratta di costruire una politica di stimolo alla concorrenza che parta all’attacco delle clientele parassitarie che, in questi anni, lungi dall’essere colpite, non hanno fatto altro che rafforzarsi. Infatti, gli antichi monopoli, sia privati (datoriali o sindacali) che pubblici (sistema radiotelevisivo, trasporti, sanità ecc. ) persistono, costituendo, sacche di sperpero di denaro pubblico, come un’analisi non superficiale del bilancio pubblico evidenzia al lettore attento; cosi come, d’altro canto, non si è provveduto ancora ad una messa a reddito di asset pubblici, totalmente inutilizzati. La politica dei fatti ha, infatti, in questi anni, lasciato il passo ad una politica degli annunci e delle chiacchiere, provocando, un duplice danno: da una parte, inducendo la convinzione nell’opinione pubblica che si siano provveduto a chissà quale trasformazione del sistema Italia (cosa che non è in effetti vera), dall’altra, dopo anni di false privatizzazioni e finte lotte ai tanti monopoli, si è andata rafforzando (complice la crisi economica) la posizione di coloro che vivono nel parassitismo assistenziale. In tal modo si è finito per dare credito a coloro che protendono per un nuovo rinnovato intervento pubblico; allora domandiamoci – alle condizioni date, ovvero, in un contesto vincolato dalla forte dipendenza del nostro paese ai desiderata della Commissione Europea – dove trovare i soldi per un nuovo new deal, che non si ancori ad una più forte pressione fiscale ?