Go Nagai a Roma scopre che Jeeg Robot ha messo radici in borgata
È l’ospite d’onore della diciannovesima edizione di Romics il mangaka giapponese Go Nagai, il creatore di Goldrake, Mazinga e Jeeg Robot che ha dominato l’immaginario della cosiddetta jeeg-generation. Classe 1945, confessa ai cronisti romani la sua passione per la mitologia classica, l’amore per Dante, la simpatia per gli spaghetti western di Franco Nero, l’interesse per l’Italia. Riceverà il premio alla carriera dalle mani dell’attore Claudio Santamaria ma risponde di non sapere che è stato realizzato un film su un jeeg robot di una borgata capitolina, (Lo chiamavano Jeeg Robot, il cui protagonista è appunto Santamaria) e che si tratta anche di un film di successo. Go Nagai conosce però l’ostilità con la quale vennero accolti i suoi eroi d’acciaio in Italia da quella sinistra che vedeva nell’infatuazione infantile per ogni tipo di eroe un pericoloso antidoto all’egualitarismo. Una storia sbiadita dal tempo (ricostruita però da L.Lanna e F.Rossi nel loro Fascisti immaginari, Vallecchi). Addirittura i personaggi di Go Nagai furono oggetto, dopo la loro apparizione in tv sul finire degli anni Settanta, di interrogazioni parlamentari e non pochi opinionisti vi vollero vedere la traccia – per loro condannabile – dell’etica dei samurai. Un odore di “fascismo” (insopportabile per gli schematismi del tempo) sarebbe emanato insomma da quei giganti del bene meccanizzati e troppo violenti. “Con i miei personaggi – ripete ancora oggi Go Nagai come riporta il Corriere – cerco di aiutare i bambini a essere più forti e coraggiosi, ad avere più fiducia in se stessi. Ed è la sola responsabilità che mi piace avere”. Una replica asciutta e convincente. Come convincente è il Jeeg Robot del film di Gabriele Mainetti, perché la sfida è sempre quella: anche nel deserto valoriale di un lembo dimenticato di una Roma perduta è possibile la “conversione” di chi è eroe a tutte le latitudini e in tutti i tempi: dal non essere amico di nessuno al sacrificio per gli altri, dall’indifferenza all’attenzione, dalla passività allo scontro, senza maglio perforante, avendo come sfondo il luogo dove va in scena la sfida più “epica” che la Capitale conosca di questi tempi: lo stadio Olimpico che ospita il derby Roma-Lazio.