Geopolitica – L’impresa d’Etiopia nel grande gioco degli Imperi
Nel maggio di ottant’anni fa Benito Mussolini annunciava agli italiani festanti il ritorno dell’impero sui “colli eterni di Roma”. Il regime toccava il suo apogeo. Con la conquista della remota Addis Abeba l’Italia “proletaria e fascista” portava a compimento le ambizioni mediterranee ed africane del Risorgimento — si vedano gli scritti di Gioberti, Cattaneo, Balbo, Durando, Cantù, Mazzini e le prime ipotesi di una proiezione oltremare cavouriane — e realizzava infine le ambizioni del colonialismo crispino e giolittiano. L’impresa d’Etiopia si dimostrò un successo, provvisorio ma pieno, sul fronte interno ma, al tempo stesso, fissò un punto di non ritorno nelle dinamiche internazionali del tempo.
L’impresa d’Etiopia
In pochi mesi, smentendo le previsioni di Mussolini, Ciano e Grandi, la piccola lontana guerra africana assunse l’imprevista dimensione di un affronto intollerabile all’impero britannico, un edificio maestoso ma fragile, reso sempre più precario dai movimenti anticoloniali indiani e arabi, dall’espansionismo giapponese in Asia e, non ultima, dalla spregiudicata concorrenza americana nel Golfo, in Persia e in Mesopotamia. Non sorprende dunque che, sull’onda di una formidabile offensiva mediatica, l’opinione pubblica albionica trasformasse in qualche settimana — scordandosi come il rosa del British Empire colorasse buona parte dei mappamondi — quello che sino ad allora era considerato nulla di più di un trascurabile e semi barbarico reame africano, in una causa della democrazia, un simbolo della libertà dei popoli, una lotta da appoggiare e sostenere ad ogni costo. In un vero casus belli. L’Italia con il suo attivismo divenne presto per il governo imperiale non più lo spiacevole concorrente minore di un tempo, ma un avversario pericoloso da sconfiggere rapidamente e con ogni mezzo. Da parte delle élites londinesi— incalzate dal miope e italianofobo Antony Eden — si trattò di un grave errore di prospettiva e di valutazione che determinò il fatale e sempre ambiguo avvicinamento tra Mussolini ed Hitler e il parallelo indebolimento della primazia britannica nel Mediterraneo e in Medio Oriente .
“Il gioco degli Imperi” di Eugenio Di Rienzo
Si trattò di uno scontro inevitabile e obbligato? L’unico responsabile della crisi internazionale — podromica secondo i più all’incendio del 1939-40 — fu solo e soltanto il Duce? Secondo Eugenio Di Rienzo no. Il grande storico romano (e animatore dell’ottima Nuova Rivista Storica) ha indagato con meticolosità la questione nel suo nuovo libro Il gioco degli Imperi e, grazie ad inedite fonti d’archivio, il professore ha ricostruito con minuzia l’intricato quadro internazionale del tempo sconvolgendo una serie di luoghi comuni e di verità acquisite. Il risultato è un vero e proprio great game, un complicato e opaco intreccio d’interessi contrapposti, vicinanze impreviste e opportunismi; un affresco con poche luci e tante ombre, senza “buoni” e “cattivi” ma con più soggetti che, nel segno della realpolitik, si affrontano, s’ingannano, si sostengono, si osservano. Una lezione geopolitica su cui (anche alla luce dell’attualità multipolare) vale la pena ritornare e meditare.
La sfida dell’Italia mussoliniana tra storia e geo-politica
Ma andiamo per ordine. La sfida della modesta Italia mussoliniana al grande impero rivelò non solo la drammatica provvisorietà degli equilibri europei ed extra europei — Stati Uniti e Giappone non furono attori secondari — e il prevalere dei freddi interessi geopolitici d’ogni attore su qualsiasi considerazione d’ordine ideologico, ma anche la vacuità delle organizzazioni transnazionali (la Società delle Nazioni, progenitrice dell’attuale Onu) e l’inutilità finale dello strumento delle sanzioni economiche. Riflettendo su quest’ultimo punto, Di Rienzo spiega bene come l’assedio economico imposto dalla Gran Bretagna e da una riluttante Francia all’Italia, oltre a rafforzare il già largo consenso interno al regime (e fare da volano alla non disprezzabile industria autarchica) si dimostrò un vero e proprio colabrodo commerciale. Indifferenti ai moniti di Ginevra (e Londra), statunitensi, sovietici e germanici rifornirono, con ottimi guadagni, l’Italia fascista delle preziose materie prime. In particolare, l’Unione Sovietica, indifferente agli appelli di Togliatti in favore del negus e ben più preoccupata dalla pressione tedesca e nipponica, non interruppe i rapporti con Roma, anzi cercò a più riprese di rafforzarli. Fu la guerra di Spagna a raffreddare (ma non ad interrompere) il fruttuoso interscambio italo-sovietico. A loro volta i giapponesi, preoccupati per i loro interessi nel Corno d’Africa, e tedeschi, in fase di distensione con Londra, rimasero, nella prima fase della crisi, su posizioni di grande freddezza. Per di più, la Germania continuò a rifornire copiosamente gli arsenali etiopici e solo dopo lunghe esitazioni Hitler decise di appoggiare l’Italia.
Gli obiettivi del protagonismo italiano
Ma perchè Eden e larga parte dei conservatori inglesi s’impegnarono con tale pervicacia su un evento, tutto sommato, secondario? Con maestria Di Rienzo spiega le fobie albioniche analizzando quella angosciata percezione del declino che pervase dopo la prima guerra mondiale le élites britanniche (Churchill compreso): uno stato d’animo più che una prospettiva politica, che però oscurò la lucidità di un’intera classe dirigente. Eppure, con l’impresa d’Africa Mussolini non mirava (l’uomo era un solido realista non un pittoresco tribuno…) a strangolare la “via delle Indie” ne ad alterare gli equilibri mondiali e tanto meno a scatenare un conflitto planetario. Anzi. Gli obiettivi del protagonismo italiano, al netto della retorica bellicista e imperiale, erano ben più limitati e si concentravano sul Mediterraneo e il mar Rosso, con qualche ambizione commerciale sullo Yemen e in Arabia Saudita, la richiesta di una rinnovata presenza dell’Agip nell’Iraq e, soprattutto, la ridiscussione dell’amministrazione e del controllo dello strategico Canale di Suez. Per quanto riguarda l’Etiopia nessuno a Roma pensava seriamente di farne una piattaforma militare per la conquista dell’Africa e nemmeno una roccaforte (come dimostrerà il non glorioso crollo nel ’41 dell’intero AOI), ma s’immaginava potesse divenire l’occasione per ridurre l’emigrazione italiana, offrendo alle popolazioni rurali nazionali, nel segno del “colonialismo di civiltà“, città da fondare e nuove terre da valorizzare. Un progetto antico già immaginato nel primo Ottocento dai saint simoniani francesi e dai socialisti utopistici e poi ripreso da Napoleone III (di cui Di Rienzo ha scritto una monumentale biografia) in Algeria. Ma questa è un’altra storia.