L’analisi – Centrodestra in crisi nelle metropoli: il moderato non ce la fa

23 Giu 2016 14:04 - di Carmelo Briguglio

È un fatto che dei quattro più grandi Comuni andati al voto – Roma, Milano, Torino, Napoli – nessuno è stato conquistato dal centrodestra. Il quale, evidentemente, non è stato considerato dagli elettori all’altezza di governare le realtà metropolitane, le prime città del Paese. Sei milioni di italiani, addensati in quattro capitali “storiche”, i quali vivono i problemi “spessi” della modernità: ad essi non è stata offerta una proposta politica adeguata agli standard di efficacia, ai modelli e alle prassi di amministrazione che guidano i più importanti agglomerati urbani europei. Il fatto in sé segnala un deficit di innovazione e di contemporaneità della classe dirigente e dei contenuti sottoposti al vaglio dei cittadini. Un dato molto serio. Preoccupante. Che non può essere annacquato con la vittoria in una città media – Trieste – e in altre piccole come Grosseto, Savona, Novara, Pordenone, Cosenza, Benevento, Olbia. Le quali, tutte insieme fanno meno della metà della popolazione di Milano. Dato positivo, certo, ma non si perdano le proporzioni. Vale molto poco – indice di superficialità – mettere in fila i piccoli capoluoghi conquistati dalla “right” e credere che possano riequilibrare il peso demografico e politico delle metropoli, dai quali si è stati elettoralmente “esiliati”.

Manca un’idea di città europea, c’è un deficit di modernità

Molti osservatori – non solo la “stampa di destra” – dicono: il centrodestra c’è, è vivo. Ma occorre aggiungere una quota di verità che è dannoso nascondere. C’è, ma poco. È vivo, ma è in crisi. Grave. Inutile anche ripetere ciò che tutti vedono. Le elezioni le ha vinte il Movimento 5 Stelle e le ha perse Renzi. D’accordo: il grande sconfitto è il Pd. Ma il centrodestra è a ruota. Forza Italia – che ha designato Parisi – non ce la fa a Milano, capitale degli interessi politici ed economici di Berlusconi. E i candidati scelti dall’ex Cavaliere sono stati bocciati nelle altre. Anche Salvini ne esce male. Milano è casa sua: insieme a Parisi e all’ex Cavaliere, lo sconfitto è lui. La lista della Lega è doppiata da Forza Italia e il segretario del Carroccio finisce come preferenze personali molto dietro a Mariastella Gelmini.

Fdi – pur forte della percentuale e della presenza a Roma – sconta un radicamento territoriale ancora fragile ed “elites” dirigenti leggere. Nella Capitale, Fratelli d’Italia può pensare di organizzare, con una squadra di consiglieri, un’opposizione visibile in un teatro che sarà molto nazionale. E fa bene Giorgia Meloni a restare nell’assemblea capitolina a guidarla. Ma non può dirsi lo stesso altrove: un partito che non ha seggi negli altri centri simbolici di nord e sud, ha evidenti problemi di radicamento. Semplicemente, non c’è. E dovrà lavorare molto su se stesso, al di là dell’immagine crescente della leader, che oggi è il suo maggiore investimento, ma che da sola non può bastare. E lo si è visto. Alla destra di Fratelli d’Italia le formazioni minori (Azione Nazionale, La Destra) hanno raccolto qualcosa, più che altro in liste civiche locali, che sono un modo per esserci senza rischiare; ma si tratta di poco, fuori dalle grandi città (brucia lo 0,6% della lista Storace con Marchini): al massimo semìni che avranno bisogno di anni per crescere, con notevoli punti di domanda su spazi disponibili e mancanza di un leader di nuova generazione.
Il tutto significa che il centrodestra italiano non ha un’idea convincente di città. Un’idea “politica”. Cioè una visione propria, distintiva, in grado di incrociare le aspettative della gente. Sa parlare poco, o in modo frammentario e improvvisato, di urbanistica, trasporti, alloggi, reti sociali, scuole, internazionalità, cultura, turismo. Non è bastato il messaggio securitario classico law and order. E se il centrodestra, Lega in testa, non è riuscito a fare eleggere un solo sindaco di metropoli, dove la pressione migratoria e la presenza degli “stranieri” è percepibile on the road – per giunta nel momento in cui la questione conquista l’agenda delle priorità in Europa – qualcosa vorrà dire. Forse anche che il messaggio attrae meno di quanto respinge. Fa presa su alcune categorie sociali e classi d’età, ma fa “muro” all’arrivo di altre. Non va oltre il confine della risposta facile alla complessità, dello slogan urlato che si perde nell’inquinamento acustico di Metropolis: non arriva, ad esempio, alle orecchie giovani che bus e metrò trasportano raggomitolate nelle loro cuffie. Una riflessione che i leader del centrodestra dovranno fare.

Nessun moderato vincente: il teorema è smentito dai risultati

Insieme a un’altra sul personale politico: i “campioni” gettati nella mischia elettorale. Ricopre i luoghi del pensare nel centrodestra, il luogo comune: la legge del Moderato Vincente. Dice Stefano Parisi: «Solo una leadership moderata può diventare maggioritaria in Italia. Un centrodestra con un leader radicale non potrà mai avere la maggioranza dei voti. Questo è evidente e lo dimostrano i risultati delle altre città. Quando il centrodestra si spacca o ha una guida radicale si spacca, perde. Noi, invece, abbiamo perso per molto poco» (Repubblica, 21 giugno). E Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano dell’ortodossia berlusconiana, la vede così:” L’unico centrodestra possibile, attualmente, è quello messo in campo a Milano. Città dove più che aver vinto Sala ha perso Parisi, per un errore di valutazione. Dopo il miracolo del primo turno, ha pensato di potere fare da solo e ha preso platealmente le distanze dai partiti che lo sostenevano». Si possono tralasciare le dichiarazioni degli esponenti, per lo più di Forza Italia: sommarie, non spiegate.
Il tentativo è di fare passare il teorema del Moderato Vincente, con l’esempio sul campo del Moderato Perdente. Un paradosso. La realtà ha messo le dita negli occhi all’ideologia moderatista; ma la realtà è sgradita: viene rigettata, un attimo dopo essere stata enunciata. La questione politica è che Forza Italia, cioè Berlusconi, ha messo in pista tre candidati – Marchini, Lettieri, Parisi – che in virtù di quel teorema, dovevano vincere e diventare rispettivamente sindaci di Roma, Napoli e Milano. E legittimare un format del centrodestra che verrà. Invece, sono stati sconfitti. Marchini, nella Capitale, ha preso poco più di metà dei voti della Meloni , la candidata sindaca “populista” che – risultati alla mano – sarebbe andata quasi certamente al ballottaggio con la grillina Raggi. Lettieri, nel capoluogo campano, al ballottaggio ha avuto meno della metà dei voti di De Magistris. Infine, Parisi sotto la Madonnina ha perso col “gemello” Sala. Di poco, si dice, va bene. Ma perdere di poco, vuol dire perdere, non vincere. Le sconfitte sono piene di “se” e “ma”: sempre sconfitte sono. E, certo, sulle defaillance non si possono mantenere “verità” che non sono vere. A meno che si vuole “spacciar per vere delle ragioni in forza delle quali quelle leggi dovevano sussistere, semplicemente per non confessare a se stessi che si era presa l’abitudine al dominio di quelle leggi e d’altre cose non se ne voleva più sapere” (Nietzsche, “La Gaia Scienza”).

Il voto grillino arriva se il sindaco è leghista o di Fratelli d’Italia

Altro punto. Perché i candidati “moderati” del centrodestra non hanno vinto ? Nel “game” del ballottaggio, la partita, come nel calcio, ha due tempi. Aggiudicarsi il primo, non vuol dire vincere la partita. Si è visto: caso da manuale è Torino, dove è stato ribaltato il risultato. È la “vendetta” del terzo escluso: chi è fuori decide chi vince il la gara finale tra gli altri due. Il terzo escluso nelle grandi città è il centrodestra, che però fa vincere Appendino su Fassino: il sindaco uscente, presidente dell’Anci, è la vittima più illustre di questo meccanismo. Il Giornale ( 21 giugno) titola a tutta pagina: “Prende i voti e scappa. Così Grillo usa il centrodestra”. È la tesi di Berlusconi ? È, comunque, sbagliata. Perché se è vero che nei ballottaggi il centrodestra tra il renziano e il grillino opta per il secondo, facendolo vincere. È anche vero il contrario. A Roma, il 23% degli elettori di destra che al primo turno hanno votato per la Meloni, al secondo hanno scelto la Raggi. A Torino a Chiara Appendino – ricerca Ipsos di Pagnoncelli – sono arrivati il 70% degli elettori che due settimane prima avevano scelto il candidato di Lega e Fdi. Ma è anche vero che a Grosseto il nuovo sindaco di centrodestra, Vivarelli Colonna – che era stato designato da Fratelli d’Italia – è stato votato al secondo turno dai grillini, ormai fuori partita. Il che gli ha fatto battere il candidato del Pd. Lo stesso è successo a Novara, con il neo-eletto sindaco della Lega, Alessandro Canelli, che ha fruito del consenso pentastellato. A Grosseto e Novara, secondo l’Istituto Cattaneo, oltre il 40% dei grillini andati a votare ha optato per il candidato del centrodestra. A Bologna, la leghista Lucia Borgonzoni è arrivata a oltre il 45%: un traguardo impensabile senza l’apporto del M5S. A Milano, invece, il “favore” non è stato ricambiato: i Cinque Stelle non hanno votato Parisi. La sua sconfitta si spiega anche per questo. Tali ultimi dati potrebbero dimostrare una cosa: i grillini al secondo turno votano il candidato di centrodestra, ma a condizione che si tratti di un “populista” e non di un “moderato”. Cioè sono disponibili a fare vincere un sindaco il meno lontano da loro, accomunati, nella differenza, da un modo di essere “radicale”, “populist”. Quindi un candidato tendenzialmente della Lega o di Fratelli d’Italia. Questo lo schema di gioco nell’Italia politica tripolare. Che smentisce l’assioma del Moderato Vincente: si rovescia nel suo contrario. O, meglio, lo riequilibra, nel metodo del caso per caso. O anche – se si vuole – in una fisiognomica “moderata con vene populiste” (Minzolini).
Ultima questione: chi sceglie chi. Perché, il “caso Parisi” (e non solo) dimostra un’altra cosa: non funziona più né il tavolino dei leader, né il “genio” di Mr. B.: occorre che la scelta venga fatta fare al “popolo”. Del centrodestra. Con le primarie. Serie, legali, trasparenti. Anche per dare più tempo e spazio mediatico al candidato che uscirà tale. Parisi rispetto a Sala – che aveva cominciato prima, con la corsa interna – ha perso anche per questo “ritardo” nel farsi conoscere. Con le primarie non sarebbe accaduto. Il che ci riporta – sull’onda di una sconfitta – a un appuntamento col tempo politico di oggi che il centrodestra rinvia da troppo tempo.

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