Con la strage di Dacca è morta l’utopia del mondo globalizzato
A Dacca, nel massacro compiuto al ristorante Holey Artisan Backerey, non sono morte “solo” venti persone, letteralmente scannate dall’odio integralista. A morire è stata anche un’idea di “globalizzazione”, quale certa cultura si era impegnata a diffondere nell’ultimo ventennio. A confermarcelo sono, tra le altre, le storie delle nove vittime italiane. Storie di gente che si è messa in gioco sui nuovi scenari del mondo senza confini, condividendo l’idea di fondo dell’utopia globalista, attenta verso l’altro da sé e quindi pronta a conoscerlo e a tendergli la mano. Stessa sensibilità non hanno manifestato gli assassini di Dacca, come, ancor prima, quelli del Bardo di Tunisi, del Grand Bassam in Costa d’Avorio, del parigino Balaclan, dell’aeroporto di Istanbul. A quegli assassini non interessa sapere chi hanno di fronte. Sparano nel mucchio, magari salvando chi sa recitare versi del Corano, in piena coerenza con i versetti secondo cui un credente non può uccidere un altro credente ed i nemici, una volta fatti prigionieri, diventano proprietà dei vincitori, che possono ridurli in schiavitù o ucciderli.
A Dacca è morta l’idea della globalizzazione facile, del mondo reso uguale dalle connessioni in tempo reale, dagli spostamenti rapidi, dai confini azzerati, da una cultura piatta e diffusa, un mondo costruito a partire dalla fine degli Anni Ottanta del ‘900. Secondo gli obiettivi allora definiti a livello generale, elaborati e diffusi da una serie di think tank e rimarcati dalle Grandi Conferenze Internazionali, l’umanità doveva essere incamminata verso l’omogeneizzazione delle culture, la relativizzazione delle religioni dogmatiche, il freno immediato alla natalità, la creazione progressiva di Stati più globali opposti a quelli nazionali – come ha efficacemente sintetizzato Ettore Gotti Tedeschi, in “Negli affari vince Caino”.
Il risultato di questo “progetto globale” è, oggi, un Occidente sempre più sbandato e culturalmente smarrito, costretto a fare i conti con un mondo islamico forte delle sue certezze spirituali ed impegnato a trasformarle in atti concreti e spietati, secondo norme che sfuggono alla nostra sensibilità, ma sono ben coerenti ad un organico dettato religioso, applicato, questo sì, a livello globale.
Di fronte a fatti terribili come il massacro di Dacca c’è chi si è appellato ad un pacifismo ad oltranza, intravedendo nella possibile via del dialogo un primo passo decisivo per l’abolizione della guerra, di ogni guerra. In fondo – a ben guardare – l’idea della pace mondiale, senza se e senza ma, non è che la continuazione, con altri mezzi, di quella visione globalizzata, che tanti danni ed illusioni ha creato nell’ultimo ventennio. Ben altra è evidentemente la strada da percorrere.
Non di utopie estreme abbiamo bisogno. Né di un globalismo indifferenziato. Ma neppure di un bellicismo senz’anima. Le guerre – non da oggi – si vincono sul terreno militare ma anche su quello delle idee e dei valori per i quali val la pena combattere e magari morire. Da qui bisogna ripartire per cercare di dare risposte mature alla crisi internazionale, all’attacco terroristico e ai processi di destabilizzazione. Magari ricominciando ad elaborare un nuovo lessico collettivo, grazie al quale opporre ad un generico globalismo, relativista e sterile, parole e sensibilità nuove, in grado di parlare al profondo delle coscienze occidentali, riuscendo a sollecitare nuove volontà e motivazioni autentiche. La sfida è aperta.