Virginia Raggi, la privilegiata cui è vietato dare della bambola
Diciamolo: c’è una suscettibilità nevrotica, quasi isterica, nel giudicare i termini che si usano quando nei discorsi ci finisce lei, Virginia Raggi, la neosindaca di Roma che tutta l’Italia osserva con curiosità, come la “cucciola” che si affaccia al mondo nuovo e ostile della politica. E giù a difenderla, tutti, da quei cattivi sessisti che osano giocare con aggettivi disinvolti… E dire che lei, la fragile Virginia, viene da quello stesso movimento il cui leader incitava i militanti con un post rabbioso: “Che fareste in macchina con la Boldrini?”. Era il 2014. Sono passati due anni e il galateo pseudofemminista insorge per un nonnulla: l’Unità scrive che Vriginia ha le orecchie a sventola? Orrore, anatema. Il Tempo titola “Roma in bambola”? Doppio orrore, doppio anatema. Fino a quella “bambolina imbambolata”, l’allitterazione sessista di Vincenzo De Luca, che ha creato scandalo e cascate di rivendicazionismo lessicale.
E dire che il panorama politico italiano, versante maschile, ha offerto ben di peggio: nel 1993 Umberto Bossi appellava così il ministro Margherita Boniver:”Cara Boniver, bonazza nostra… noi siamo sempre armati di manico”. Fu un po’ come se facesse irruzione il modello Trump nel linguaggio politico. La Lega custodisce gelosamente quella tradizione: Matteo Salvini ha evocato la “sculettante Boschi” e Roberto Calderoli diede dell’orango a Cecile Kyenge. Ma le più bistrattate, a ben vedere, furono la lady berlusconiane, a cominciare da Mara Carfagna, presa di mira da un palco pubblico da Sabina Guzzanti. Anche le donne, va detto, in qualche occasione si sono lasciate andare: la stessa Carfagna apostrofò come “vajassa” Alessandra Mussolini, oggetto a sua volta di un’aggressione a colpi di microfono da parte del ministro Katia Bellillo (Rifondazione) durante una puntata di Porta a Porta. E anche la stampa non era certo tenera e politicamente corretta quando appellava Viviana Beccalossi come la “Barbie nera”. Né si levarono lamenti e cori di critiche quando Giorgia Meloni in un fumetto veniva definita “la ministronza”. Relegate le battutacce di Berlusconi nella categoria del paternalismo (“Stefania non fare la bambina”, ebbe a dire rivolto alla Prestigiacomo) o dell’esibizionismo casereccio da osteria (“lei quante volte viene?”, a una dipendente di Green Power), sul caso Raggi siamo al salto di qualità. Va evitato, sembrerebbe, persino il riferimento all’identità sessuale della sindaca, che sia esso ironico, o volgare, o allusivo o malevolo. Perché già anche solo l’accenno conterrebbe in nuce un’accusa di inferiorità, una volontà discriminatoria. Guai anche a dire che Virginia è bella, che ha fascino, che è elegante. Tutto sessismo d’accatto, deciso da una cupoletta di parafemministe che si accaniscono a stilare un vocabolario imposto depurato dai termini “maschilisti”. E perché? Perché Virginia, rispetto a tutte le altre, è doppiamente da proteggere, Virginia è la proiezione di ciò che loro non sono state capaci di fare, sempre lì a cianciare di quote, sempre lì a imitare lo stile maschile in politica – spietata competitività – per non restare tagliate fuori, dalle liste o dai listini. Ma Virginia, in realtà, di questo “scudo” se ne frega. Infatti, a chi le chiede se “vuole essere chiamata sindaca” risponde con schiettezza: “è cacofonico”. Oltre l’ideologia. Oltre la filosofia politica. Con il linguaggio di Boccea e non con quello dei gender studies.