Cefalonia 1943, l’antifascismo non c’entra. Ecco la verità storica
Il sacrificio dei soldati italiani a Cefalonia è uno dei miti dell’antifascismo d’annata. L’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi definì l’eroico comportamento della divisione Acqui davanti ai tedeschi il “primo atto della Resistenza, in un’Italia libera dal fascismo”. Che la realtà storica sia un po’ più complessa e che comunque parlare di “eroi antifascisti” (così ad esempio l’Unità definì il comandante della divisione, generale Antonio Gandin, già nel 1945) sia una forzatura propagandistica sono cose note da tempo, almeno tra gli studiosi e gli appassionati di storia meno prevenuti.
La storica Elena Aga Rossi restituisce il sacrificio della divisione Acqui alla sua collocazione storico-politica effettiva, cioè al di fuori del mito antifascista. E lo fa in un libro in uscita il 22 settembre: Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito (il Mulino ed.). Paolo Mieli ha anticipato i contenuti del volume in un ampio articolo uscito ieri sul Corriere della Sera. A beneficio di chi non la conoscesse, vale la pena ribadire che l’autrice è una studiosa seria e rigorosa: allieva di Renzo De Felice, la Aga Rossi dimostrò una ventina di anni fa, insieme allo storico russo Viktor Zaslavskij, che la famosa “svolta di Salerno” del 1944, lungi dallo scaturire da una autonoma scelta di Togliatti, fu in realtà una decisione imposta da Stalin al leader del comunismo italiano. La tesi era solidamente suffragata dai documenti usciti dagli archivi sovietici dopo la fine della guerra fredda.
“Un dato totalmente fuori dalla realtà”
Ora, appunto, la studiosa si dedica a scoprire le numerose lacune nella narrazione ufficiale dei fatti di Cefalonia. Tanto per cominciare non sono per nulla convincenti le cifre fornite sui caduti italiani. Il governo Parri parlò nel 1945 di 9.000 morti, tra caduti in combattimento e fucilati dopo la resa (a Cefalonia c’erano complessivamente 12.000 militari italiani). “Un dato totalmente fuori dalla realtà”, annota l’autrice, che riconduce l’entità del massacro a un margine numerico tra i 1.600 e i 2.500 caduti. Si tratta sempre di una triste contabilità. Però tale problema morale non se l’è mai posto l’Anpi, che ha sempre parlato di 9.500 morti italiani. La Aga Rossi precisa che parlare “al di fuori di mitologie ed esagerazioni” non vuole affatto dire “sminuire il significato della tragedia” , ma, al contrario, “attribuire maggior valore a quanti morirono combattendo o fucilati dai tedeschi dopo la resa”.
“La via più diretta per tornare a casa”
Ma come andarono realmente le cose? Perché i soldati italiani si rifiutarono di deporre le armi dopo l’8 settembre? La studiosa confuta la tesi di un episodio da inserire nella resistenza. “Quei soldati – osserva Mieli commentando il libro di Aga Rossi – consideravano il loro non come ‘un gesto di eroismo resistenziale’, bensì come la ‘via più diretta per tornare a casa’. La vicinanza dell’Italia e la speranza dell’arrivo di aiuti da parte degli anglo-americani ebbero un ruolo fondamentale nel convincere una parte della divisione che, combattendo i tedeschi, sarebbero tornati a casa prima”.
Un ambiguo “sobillatore” a Cefalonia
Ed è proprio qui, nella fase più delicata, poco prima l’inizio delle ostilità tra i soldati della Acqui e i reparti tedeschi, che la tragedia di Cefalonia presenta i contorni più oscuri. E ciò a seguito “di gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali”, come si legge nel resoconto di un’indagine militare condotta all’inizio degli Anni Sessanta. Accadde che alcuni ufficiali, contrari alla scelta del generale Gandin di prendere tempo con i tedeschi nella speranza di aiuti da parte degli Alleati, si adoperarono per forzare la mano al comando di divisione e far precipitare la situazione. Uno degli aspetti più pesanti di questa operazione è costituito dalle armi e dalle munizioni che questi ufficiali fornirono ai partigiani dell’Elas per spingerli a combattere al loro fianco. I greci ingannarono però gli italiani. Prima promisero di intervenire (e tanti soldati si illusero che il fantomatico aiuto greco avrebbe contribuito a contenere i tedeschi prima del non meno fantomatico intervento anglo-americano) , salvo poi guardarsi bene dal muovere un dito. La studiosa confuta, al dunque, il mito della “fratellanza antifascista italo-greca” proposto dalla storiografia resistenziale a proposito di Cefalonia. Tra questi ufficiali “sediziosi” emergono figure ambigue come quella del capitano Renzo Apollonio, il quale -annota Mieli – “riuscì a farsi considerare l’eroe di Cefalonia nonostante avesse in seguito collaborato con i militari nazisti”. “Ottenne questo riconoscimento presentandosi come il fomentatore della ‘rivolta dal basso’ da parte dei soldati”.
La pesante responsabilità di Badoglio
Ma la responsabilità più grave della tragedia di Cefalonia appartiene a Pietro Badoglio. Così osserva Aga Rossi: “La decisione del governo di ordinare di resistere senza essere in grado di assicurare l’aiuto militare promesso equivalse a una condanna a morte dei resistenti”. Il sacrificio italiano a Cefalonia rimane una pagina eroica e tragica. E proprio per questo va sottratta alla propaganda e alla speculazione politico-ideologica. Furono eroici i caduti in quel tremendo settembre 1943 nell’isola greca. Eroi italiani e basta. Non c’è bisogno della qualifica di “antifascisti”.