Femminicidio: servono nuove norme. Ecco una storia che lo dimostra

28 Set 2016 14:18 - di Redattore 89
femminicidio

In Italia vale di più il diritto alla sicurezza della vittima o la privacy del carnefice? Chiedetelo a chi ha subito stalking e violenze, la risposta vi lascerà l’amaro in bocca, come troppo spesso accade quando sui piatti della bilancia-giustizia si mettono da una parte chi ha subìto e dall’altra chi ha infierito. La privacy del carnefice vale, neanche a dirlo, di più.

La parte offesa «non ha alcuna titolarità»

Non è teoria. È storia di vita vissuta da decine di donne che, pur avendo avuto il coraggio di denunciare e far arrestare i loro aguzzini, si ritrovano poi indifese – talvolta si direbbe perfino offese – da quello Stato che ha promesso di proteggerle. È la storia di vita vissuta di B. B., una mamma di Milano alla quale è stata negata la possibilità di sapere quando l’ex marito che la picchiava tanto da meritare il carcere tornerà in circolazione, per i permessi premio e per la fine della pena. «Non ricorre alcuna titolarità da parte della p. o. (parte offesa, ndr) a conoscere le date di eventuale fruizione di permessi da parte del condannato», si legge nella risposta del magistrato di sorveglianza, che suggerisce che «quelli descritti come timori dalla p. o. possono e devono essere rappresentati alla autorità di polizia nel caso in cui si tramutino in fatti obiettivi, dal condannato posti in essere o minacciati nei confronti della p. o.». Insomma, la vittima deve precipitare nuovamente nell’inferno, solo in quel caso può avere tutele. Ammesso, ovviamente, che dall’inferno esca viva: quante volte ci rammarichiamo di “femminicidi” che si potevano evitare?

Il lessico cancella la vittima

Oltre al merito, sconcerta il lessico giuridico: non solo la vittima diventa «parte offesa», ma la parte offesa diventa «p. o.». E se le parole hanno un peso, se significano qualcosa, se a loro modo condizionano la realtà, qua assistiamo alla smaterializzazione della vittima, che alla fine diventa due lettere puntate che non significano proprio niente. E che ci interrogano anche su che senso abbia inventare nuove parole come “femminicidio”, promuovere campagne con le scarpette rosse e indire giornate di sensibilizzazione.

Prima i diritti del condannato

Sarebbe però sbagliato pensare che il problema siano i magistrati “cattivi”. Il problema è sistemico, di un ordinamento che non prevede più alcuna tutela della vittima quando l’imputato diventa condannato. «La legge Carfagna è una buona legge, ma si inserisce in un contesto di vuoti enormi, che non poteva colmare», spiega l’avvocato Arianna Leonardi del Foro di Milano. «La legislazione italiana – dice ancora l’avvocato Leonardi, che si occupa di diritto di famiglia e dei minori – prevede per le vittime tantissime tutele nella fase preliminare, ma quando poi si passa alla fase dell’esecuzione della pena tutte queste tutele improvvisamente spariscono. Di colpo si passa dalla tutela della vittima alla rieducazione del condannato e la vittima, anzi le vittime vengono dimenticate totalmente». «È giusto pensare alla rieducazione del condannato – precisa l’avvocato – ma non ci può essere questo squilibrio».

I figli usati come “strumenti” di rieducazione

In questo buco nero normativo non finiscono risucchiate solo le donne, per questo l’avvocato parla di vittime. I figli ne fanno le spese allo stesso modo, forse di più. Mentre i padri sono in carcere, infatti, i figli smettono di essere minori da tutelare tout court e diventano strumento del percorso rieducativo, perché – osservazione degli avvocati alla mano – la prima cosa che spergiurano praticamente tutti i padri incarcerati è di voler diventare dei buoni genitori. Assicurazione di cui i servizi sociali e i terapeuti devono tener conto, tanto nell’assecondare i desiderata del condannato quanto nelle relazioni a beneficio dei giudici. Con paradossi spaventosi, come quello che si verifica quando i padri sono detenuti in carceri con sezioni speciali per i crimini sessuali: chiedono che i figli siano portati a visita, incuranti del fatto che condivideranno lo spazio di quella visita con stupratori e pedofili.

L’appello: intervenite o piangeremo altri femminicidi

«Come avvocato e come donna – conclude Arianna Leonardi – auspico un intervento del legislatore per riequilibrare la situazione. Noi, i magistrati, gli operatori cerchiamo tutti di fare la nostra parte, ma senza una cornice normativa chiara e attenta alle vittime continueremo a poter fare poco per queste donne, per farle vivere in sicurezza insieme ai loro figli o, nella più drammatica delle ipotesi, semplicemente per farle vivere».

 

 

 

 

 

 

 

 

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