Budapest 1956 / Quel tramonto rosso sangue del comunismo

25 Ott 2016 10:29 - di Marco Valle

Nei Settanta, quando eravamo ragazzi, vi era uno slogan che scandivamo con rabbia. Tanta rabbia. Da Trieste a Palermo. “Praga, Budapest, Berlino – comunismo assassino”. Poi cantavamo “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”. Almerigo Grilz — il migliore tra noi — convinse la segreteria del Msi, sempre taccagna, a produrre un Lp con le canzoni di lotta della Giovane Destra. Il pezzo centrale era il canto per Budapest, voce solista Riccardo Pelliccetti, oggi affermato giornalista e grande amico.

Quella meravigliosa rivoluzione di popolo a Budapest…

Per noi tutti Budapest, quella meravigliosa rivoluzione di popolo che scosse la cortina di ferro, era la risposta ai nostri dubbi e la conferma definitiva che eravamo dalla “parte giusta”. Il sangue dei magiari — “studenti, braccianti, operai” —  ci ricordava che il comunismo (quello vero, non le puttanate dei marxisti nostrani o le acrobazie dei radical-chic) era un’impostura, una tragica burla. Un sistema fallimentare quanto criminale. Punto e basta. Una volta tanto avevamo piena ragione. Lo ricordano, una volta di più, le celebrazioni  con cui l’Ungheria intera ricorda oggi quel tragico novembre di sessant’anni fa. Sul Danubio, in questi giorni, la memoria nazionale scorre e si rafforza con manifestazioni, convegni, mostre in oltre 2700 città, paesi e villaggi. Nella capitale il palazzo della polizia segreta, la famigerata “casa del terrore” in via Andràssy 60, è stato trasformato in un museo sui crimini comunisti e dappertutto si stagliano grandi manifesti con i volti dei ragazzi e dei combattenti di quei giorni, un’arma in mano, e sopra la stessa scritta: “Viva la libertà dell’Ungheria. Viva la Patria”. Viktor Orbàn ancora una volta è in piena sintonia con il suo popolo.

Per capire il dramma ungherese sono usciti in questi giorni alcuni libri importanti. Tra i tanti abbiamo scelto Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello, la testimonianza dolorosa ed autentica di Sàndor Kopàcsi, allora un comunista convinto; in quei giorni vide crollare tutte le sue illusioni sul “sol dell’avvenire” e scelse la parte giusta. Pagando di persona. Kopàcsi — figlio di operai social democratici e calvinisti, poi uno dei pochi partigiani ungheresi e, nel 1945, coptato dal regime comunista —  a 34 anni era questore di Budapest: un privilegiato che credeva (invero sempre meno…) nel sistema, nell’Urss e in Stalin.  Le sue fragili certezze si frantumarono per sempre allo scoppio della rivolta. Il 25 ottobre 1956, responsabile dell’ordine pubblico nella capitale, vide la rabbia del popolo e si rese conto della stupidità del regime: «Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello» fu la frase con cui un tenentino gli spiegò come pensava di disperdere i centomila dimostranti che stavano sbullonando la statua di Stalin. Per Kopacsi fu il momento della scelta. Definitiva. Rifiutò di sparare sui manifestanti e si unì a loro. «Quel giovedì 25 ottobre 1956 avevo visto tante di quelle atrocità, avevo avuto tante delusioni e accumulato nella mia mente tanti problemi insolubili che, se non fossi stato circondato dai miei ufficiali, se fossi rimasto solo nel mio ufficio, mi sarei sparato».

Kopàcsi e l’euforia di quei dieci giorni di libertà

Kopàcsi visse da protagonista — con gli inevitabili smarrimenti ma con determinazione —  l’euforia di quei dieci giorni di libertà, si oppose con coraggio all’invasione sovietica, attese invano l’aiuto dell’Occidente e poi venne schiacciato — assieme a tutti altri —  dalla repressione. Da subito il questore comunista, il “compagno colonnello” divenne per gli ex compagni un “nemico del popolo”. Arrestato per tradimento da quello stesso regime che aveva sostenuto, l’uomo venne torturato a lungo ma sfuggì per una serie di coincidenze fortunate dalla forca  — i totalitarismi sono spesso insondabili nella loro follia —  e venne condannato all’ergastolo. Non ebbero la stessa fortuna Joszef Szylagyi (“suicidato” in carcere), Nagy (consegnato ai sovietici da Tito), il generale Pal Maleter, Miklos Gimes, tutti impiccati la mattina del 16 giugno 1958. A Kopacsi toccò il compito della memoria e della testimonianza. Nel 1963, grazie ad un’ammistia,  l’ex colonnello venne liberato e nel 1975, dopo una vita di miseria, potè emigrare in Canada. Una volta libero scrisse la sua storia. Con onestà e crudezza. Nel 1989, crollato il comunismo, Kopácsi rientrò in patria e fu reintegrato nella polizia con il grado di Maggior Generale. Morì nel 2001. Di lui rimane il libro e le sue domande: «Chi ero io? Il questore di Budapest? Il figlio prediletto di mio padre? Un adepto di Chruscev e di Imre Nagy? Un guscio di lumaca svuotato della sua sostanza?» Interrogativi senza risposta.

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