Filippine, i 100 giorni di Duterte. Sette su dieci approvano il suo governo
Dopo quasi cento giorni al governo, tra Rodrigo Duterte e i filippini è ancora luna di miele. Un sondaggio pubblicato rivela che il 76 per cento della popolazione è “soddisfatto” dell’operato del presidente, nonostante – o anche grazie a – l’ondata di critiche internazionali verso gli abusi della “guerra alla droga” dichiarata dal leader di Manila, che ha causato almeno 3.500 morti. Mentre il resto del mondo scuote la testa di fronte al suo modo di governare, per i suoi connazionali Duterte rimane una star. Il sondaggio evidenzia un consenso granitico. Solo l’11 per cento si dice insoddisfatto, mentre il 13 per cento è indeciso. Nell’isola di Mindanao – dove si trova il “feudo” di Davao, controllato da Duterte o dai figli da ormai tre decenni – la percentuale di consensi sale fino all’88 per cento. Cifre enormi rispetto a quelle del suo posato predecessore Benigno Aquino, considerato troppo debole e inefficace dagli elettori, specie nella lotta al crimine e alla corruzione.
Nessun presidente ha fatto parlare così tanto di sé nei suoi primi cento giorni. Se le promesse che si fanno in campagna elettorale vengono di solito disattese, Duterte è partito da subito mettendo in pratica la linea dura ampiamente prospettata prima del voto. A ogni comizio fomentava la sete di vendetta della folla verso i narcotrafficanti, parlando di “100 mila criminali” da uccidere. Un obiettivo che di questo passo è raggiungibile, considerati i sei mesi di mandato: in poco più di tre mesi al potere, la sua “guerra alla droga” ha causato almeno 3.500 morti. Le critiche internazionali non lo intaccano, anche perché chi lo ha votato sapeva benissimo – a lo apprezzava – che nei suoi anni da sindaco Duterte ha utilizzato lo stesso approccio (con almeno 1.200 esecuzioni sommarie). La popolazione spera che “il modello Davao” possa ora funzionare su scala nazionale, chiudendo un occhio sulla scia di sangue e apprezzando piuttosto i 22mila arresti e gli oltre 700mila sospettati che si sono consegnati pur di non essere uccisi dalla polizia o da vigilantes affiliati. I filippini amano il suo carisma e la sua enfasi sul patriottismo, nonché la sua linea dura verso la corruzione.
Gli insulti a leader e organizzazioni mondiali – “figlio di puttana” a Barack Obama e Ban Ki-moon, altri improperi verso l’Onu e la Ue – scandalizzano all’estero, ma in patria il linguaggio colorito di Duterte lo avvicina alla lingua del popolo. Lui continua imperterrito: pochi giorni fa ha mandato “all’inferno” Obama, accontentandosi del purgatorio per Bruxelles. Le uniche scuse sono arrivate per aver menzionato i milioni di ebrei uccisi da Hitler, aggiungendo poi che sarebbe contento se potesse fare lo stesso con i tossicodipendenti. Al di là degli insulti a Obama, Duterte sta mostrando a più riprese la volontà di avvicinarsi alla Cina, anche per attirare maggiori investimenti. Per Pechino, intenzionata a espandere la sua zona di influenza e sempre più baldanzosa sulla questione delle isole contese nel Mar cinese meridionale (anche con le Filippine), è un inaspettato regalo. Per Washington un problema per ora senza soluzione.