Buttafuoco: «Del Msi critico la sudditanza agli Usa e rimpiango Niccolai»
«Ho un effetto-manicomio in testa: c’erano tante cose, ho provato un senso di smarrimento, devo ritornarci…». Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, scrittore, una vita a sparigliare schemi e macinare idee sulla fascia destra, sembra confuso e felice – come canterebbe la sua compaesana Carmen Consooli – dopo la visita alla mostra sui 70 anni del Msi, organizzata dalla Fondazione An nella sala De Marsanich di via della Scrofa. «Sì, mi è piaciuta, ma al netto del coinvolgimento sentimentale, ho cercato di visitarla con distacco, di giudicarla col senno di poi. Quella missina è anche la mia storia, sono stato dirigente del Fdg e componente dell’esecutivo nazionale. Ho interrotto il mio impegno politico con la fine del Msi»
Al netto dell’effetto-manicomio e delle sue emozioni personali cosa l’ha colpita, Buttafuoco?
«La rievocazione dell’antico male che funesta la storia missina: la sudditanza verso gli americani. Mi ha colpito rivedere quei manifesti che avvisavano Nixon sulla possibilità che in Italia arrivassero i comunisti al governo, se penso che oggi la salvezza del patrimonio culturale europeo è affidata all’ex colonnello del Kgb e non certamente nell’ambasciata americana…. La verità è che eravamo costretti a stare dalla parte dei nostri carnefici».
Un tesi che Buttafuco ha esposto senza anche nel suo romanzo Le uova del drago, dove lo sbarco degli americani è visto dalla parte dei fascisti e dei tedeschi. «Per me — ha detto ieri — è una ferita straziante. Due miei familiari furono condannati a morte dal comando alleato per aver militato nei Far, Fasci d’azione rivoluzionaria, che difesero l’isola. Altri parenti erano emigrati in America. Ogni volta che si rivedevano, si scambiavano accuse: “Voi ci avete bombardati!”. “Voi ci avete sparato contro!”», ha raccontato ieri, senza mezze misure, al Corriere della Sera, dopo aver visto l’ultimo film di Pif, “In guerra per amore”.
Gli americani erano i nemici e il Msi non lo capì, dunque. Cosa capì prima degli altri il Movimento sociale?
«La necessità del confronto interno: il Msi ha avuto la capacità straordinaria di essere una fornace attiva e viva per tutti gli anni in cui è esistito, una vivacità intellettuale che non ha più avuto né An né il Pdl. Il nostro era un mondo straordinario e imprevedibile che poteva sostenere tutto e il contrario di tutto da quella posizione di accerchiamento in cui viveva, per la necessità di sopravvivere a tutto, anche ai momenti tragici. Un mondo al quale non venne data la possibilità neanche di vivere i suoi drammi ma fu costretto a passare direttamente alla tragedia, dalla commedia alla farsa».
Che insegnamento lascia il Msi alle nuove generazioni di destra?
«Temo che sia difficile, oggi, insegnare qualcosa alle nuove generazioni, i ragazzi di oggi non sanno neppure chi era Andreotti, figuriamoci chi fosse Michelini o Anfuso, non hanno familiarità con la storia della politica italiana e con i giganti del Novecento. Oggi i ragazzi ragionano in termini di affinità generazionali, come accade con Renzi».
Che c’entra Renzi?
«Lui tocca le vene più prepotenti e arroganti della personalità, propone una certa idea di vita e forse piace ai giovani proprio per questo. In questo non assomiglia a nessuno dei suoi predecessori, tantomeno a Craxi, il leader più vicino al nostro mondo di destra. Renzi forse non è neppure italiano, anzi, è un innesto innaturale nella storia del nostro Paese, sembra il leader di una nazione asiatica colorata dall’arancione di una finta rivoluzione».
Anche lei, Buttafuoco, è cresicuto nel mito di Almirante, a cui è dedicata gran parte della mostra?
«No, il mio riferimento è stato sempre solo Beppe Niccolai. Le cose che ha detto sulla mafia erano contenute nella relazioni di minoranza che in Antimafia Sciascia, all’inizio degli anni Settanta, adottò come testo base. Lo stile di Niccolai era inarrivabile, era un uomo profondamente innamorato di questa disgraziatissima Italia ed era sempre generoso di provocazioni intelligenti. Come quando disse che perfino Piazzale Loreto era stato l’estremo atto d’amore degli italiani verso Mussolini, la sublimazione di una disfatta, la bestemmia finale contro il Dio che avevano venerato…»