Ungheria 1956: l’anticomunismo come un discrimine di valore. Anche oggi
Il tempo trascorso, i muri crollati, il disfacimento dell’Urss, il tracollo dei regimi comunisti e lo sfarinarsi dei partiti “fratelli” occidentali non devono fare abbassare la guardia rispetto alle drammatiche giornate dell’ottobre-novembre 1956, della Rivolta d’Ungheria, della quale si ricorda, in questi giorni, il sessantesimo anniversario, magari prestandosi a interpretazioni edulcorate o manipolate, a uso del politicamente corretto. Mai come in occasione dei “fatti d’Ungheria”, il “discrimine” è chiaro, evidenti le forze in campo e i rispettivi interessi in gioco. Da una parte un regime al collasso economico, nato contro la maggioranza del popolo ungherese (alle ultime elezioni libere i comunisti avevano ottenuto il 17% dei voti), che si reggeva grazie ad un capillare sistema poliziesco (tra il 1952 ed il 1956, per ragioni politiche vennero processati e condannati 516.000 ungheresi), dall’altro un popolo orgoglioso della propria identità e tutt’altro che disposto all’assimilazione ideologica. Non a caso i primi atti dei rivoltosi di Budapest furono – i simboli contano – la distruzione della statua di Stalin, l’assalto alle sedi del partito, la bandiera ungherese purgata della falce e martello. Rivolta anarchica? Rivolta democratica? Rivolta nazionale? Furono diverse le componenti che contribuirono all’insurrezione popolare. Visto il contesto, quel che è certo è che fu rivolta anticomunista, nella misura in cui il comunismo rappresentava l’antinazione, il regime poliziesco, il potere straniero. E tale fu anche in ragione di come venne percepita in occidente, a cominciare dall’Italia. Anche qui le differenze contano e aiutano a cogliere le forze in campo.
Ungheria, così Tremaglia salvò alcuni patrioti
Nei giorni della rivolta ungherese, l’Unità, organo del Pci, parla di «putsch controrivoluzionario», bolla gli operai insorti come «teppisti» e «spregevoli provocatori», «fascisti» e «nostalgici del regime horthyiano», salutando poi l’intervento sovietico, finalizzato a «porre fine all’anarchia e al terrore bianco». I vertici del Pci sono ben allineati agli ordini di Mosca. Per Umberto Terracini «l’intervento sovietico non può che trovare unanime appoggio e solidarietà in tutti i veri democratici italiani». Anche Giorgio Napolitano condanna come controrivoluzionari gli insorti ungheresi. È certo che Palmiro Togliatti abbia sollecitato l’intervento armato sovietico, come conferma una lettera del leader comunista italiano del 30 ottobre 1956 al Comitato Centrale del Pcus, pubblicata su La Stampa l’11 settembre 1996. Sul fronte opposto, quello dell’anticomunismo più radicale , c’è la passione e l’intransigenza della gioventù missina, che manifesta la propria solidarietà a quella ungherese, proclama scioperi a oltranza nelle scuole, chiede lo scioglimento del Pci. A Milano viene perfino lanciato un appello per trovare giovani volontari disposti a battersi per l’Ungheria, con i risultato che i dirigenti locali si beccano una denuncia per la violazione della norma che «vieta gli arruolamenti non autorizzati al servizio di uno Stato estero». Mirko Tremaglia, non ancora trentenne, non si lascia però scappare l’occasione e parte con alcuni camerati, su una sgangherata Giardinetta, alla volta di Budapest. In realtà varca appena il confine tra Austria e Ungheria, riuscendo a favorire la fuga di alcuni giovani patrioti. La vicenda ungherese conferma come, in quegli anni, l’anticomunismo fosse un discrimine di valore. Ed oggi – anche alla luce delle vicende seguenti – è ben chiaro chi avesse ragione. O di qua o di là. Dalla parte di chi sollecitava l’intervento sovietico ovvero di chi piangeva le vittime della repressione. Dalla parte dei carnefici ovvero di chi chiedeva la libertà per la propria terra. Tertium non datur.