Presuntuosi e snob, ecco come Trump ha mandato in tilt i sondaggisti
Un disastro. Come per la Brexit. Tutto quello che potevano sbagliare, i sondaggisti lo hanno sbagliato, restituendo per settimane la fotografia di un Paese che in realtà stava andando da un’altra parte. Per Nate Silver in particolare, il “mago” dei numeri che aveva indovinato senza sbagliare nulla la vittoria di Barack Obama nel 2012, è stata una vera débacle. Dopo aver dato per settimane Hillary Clinton in vantaggio su Trump con percentuali bulgare, nel mezzo della notte italiana continuava a dare all’ex first lady un 70% di probabilità di farcela. Quando il New York Times, l’altro grande sconfitto delle presidenziali Usa, aveva alzato già bandiera bianca consegnando di fatto la Casa Bianca a Trump, senza avere mai espresso un solo dubbio sulla vittoria di Hillary nelle settimane precedenti il voto.
Non è andata bene neppure al sito RealClearPolitics, una sorta di bibbia per giornalisti e addetti ai lavori, e le sue cifre frutto della sintesi di tutti i sondaggi disponibili: erano semplicemente sbagliate. È andata alla grande invece a Matt Drudge, lo storico blogger ultraconservatore e il suo sito aggregatore DrudgeReport, quello che rivelò nel 1998 agli Stati Uniti e al mondo intero l’esistenza di Monica Lewinsky, la stagista della Casa Bianca che portò Bill Clinton a un passo dall’impeachment. Tra i grandi quotidiani invece, l’unico che attraverso i suoi sondaggi dava il Trump in testa da settimane è il Los Angeles Times. Come ha spiegato in tempi non sospetti Carl Bernstein, lo storico giornalista del Washington Post che ha scoperto lo scandalo del Watergate, Drudge è il kingmaker che grazie alle sue pagine web visitate 1,5 miliardi di volte al mese ha permesso a Trump di vincere a sorpresa la nomination repubblicana per la Casa Bianca. Definendo l’universo di Matt Drudge “alternativo di destra”, Bernstein ha sostenuto che “se quanto mette Drudge sul suo sito è vero, Donald Trump vincerà”. Previsione controcorrente ed azzeccata. Cos’è successo lo spiega molto bene un altro grande giornalista americano, Frank Rich: “Sappiamo adesso senza ombra di un dubbio che un’America bianca esiste ancora, e non soltanto ‘red-state’ (repubblicana) o ‘blue-collar’ (operaia), pronta a combattere fino all’ultimo per conservare il suo statuto ancestrale (di prevalenza) sull’America non bianca che sta emergendo un po’ dappertutto in un nuovo secolo spaventoso. Ed esiste ancora una bella porzione di America dei maschi che vuole fare lo stesso per conservare le proprie prerogative che si stanno sfilacciando”.
È proprio questo che i sondaggi, veicolati da una stampa tutto sommato prevalentemente pro-Clinton (mentre una percentuale cospicua di americani proprio non la sopporta, per ragioni diverse), non hanno colto, in parte perché i fenomeni nuovi ed emergenti sono più difficili da interpretare attraverso gli algoritmi. E cioè la mobilitazione pro-Trump della classe media ed operaia della ‘rust-belt’, la cintura industriale del Midwest che paga la crisi e soffre per la globalizzazione, il permanere del razzismo negli Stati del Sud, la mancata mobilitazione dell’elettorato afroamericano che per Obama aveva fatto miracoli. Ecco perché Trump ha vinto in Ohio, in Michigan (una vera sorpresa), in Pennsylvania, in North Carolina e in Florida. Se Clinton avesse ottenuto un 2-3% di elettori in più in questi Stati avrebbe vinto alla grande, scrive il Washington Post. Quello che è successo è riassunto in poche parole in uno dei numerosi mea culpa del New York Times: in un editoriale intitolato ‘La vita fuori dalla bolla liberal’, J.D. Vance, lo scrittore tra i primi ad aver teorizzato la frattura tra elite e lavoratori bianchi, sostiene: “Avrei dovuto essere più attento, la mia famiglia ha votato per Trump”. Vance, pur avendo indovinato la nomination per il tycoon, non aveva dubbi sulla vittoria di Clinton.