L’analisi / La destra, il referendum e la decisione di votare No
Il popolo italiano, con quasi il 60 per cento dei voti espressi, si è pronunciato in modo chiaro e inequivocabile: ha bocciato la riforma Renzi-Boschi che intendeva cambiare 47 articoli della Costituzione. Adesso che il risultato del referendum celebrato il 4 dicembre è un dato storico, oltre che politico, e che il fuoco della polemica lascia il campo ai suoi effetti – primo fra tutti le dimissioni di Renzi e del suo governo – vale la pena fare qualche riflessione. Perché la Destra si è schierata per il No nel referendum costituzionale del 4 dicembre? Tutta la Destra. Innanzitutto quella parlamentare rappresentata da Fratelli d’Italia, ma anche quella minore (Azione Nazionale), ha fatto una campagna appassionata contro la riforma Renzi- Boschi.
Perché No: da Almirante a Giorgia Meloni
A Giorgia Meloni, erede visibile del patrimonio politico, culturale ed elettorale del Msi e di Alleanza Nazionale, si potrebbero porre molte domande sul perché di questa posizione che ha dato un contributo notevole di idee e consensi al fronte del No. Già, perché? Almirante si battè per una grande riforma istituzionale, era contro il bicameralismo paritario, avrebbe voluto cambiare la Carta del ’48 che il Msi non votò (non c’era) in Assemblea Costituente. E la Destra – grazie all’impegno di Pinuccio Tatarella che ci credeva come percorso di legittimazione – aveva svolto un ruolo significativo nella Commissione D’Alema, bloccata in finale dal veto di Berlusconi. Senza dire che An aveva fatto, con Berlusconi premier, la riforma costituzionale bocciata poi dal referendum del 2006. E allora perché, al di là della dinamica maggioranza-opposizione questa battaglia che ha visto la “rive droit” impegnata in una battaglia condotta senza esclusione di colpi?
La domanda va oltre i contenuti della riforma bocciata, approssimativa e a volte irragionevole nei contenuti: una “frittura di pesce”, per usare il lessico del governatore campano De Luca, risultata indigesta agli italiani. È vero: il progetto della destra politica italiana nel dopoguerra è stato quello di una grande riforma delle istituzioni; ed è anche vero che il bicameralismo paritario è stato oggetto di una critica, forte e documentata – si leggano i due bei volumi di Giorgio Almirante “Processo al Parlamento” (Centro Editoriale Nazionale) – fin dai tempi del Msi. E allora ?
Dal nostro punto di vista, ci sono state molte ragioni, tutte non superficiali, che hanno indotto Giorgia Meloni e tutto il mondo della destra “nazionale” – l’area di consenso maggioritaria in continuità con Msi e An – a schierarsi per il No. Anche al di là della contingenza e dell’opposizione al governo Renzi.
Destra repubblicana e popolare: dal referendum del ’46 alla legge-truffa
Ma il primo, quello prioritario, è sicuramente la difesa del suffragio universale. Paradosso ? Per nulla. Leggetevi (o rileggetevi) l’ottimo saggio di Ernesto Galli della Loggia “Intervista sulla destra” (Laterza). Galli fa risalire alla Francia post-rivoluzionaria e alle tre destre catalogate da Renè Remond ( La destra in Francia, Mursia) la scelta della destra più moderna – quella bonapartista – di accettare il suffragio universale come via alla contemporaneità e di abbandonare le nostalgie dell’Ancient Regime, della tentazione reazionaria del “Trono e Altare”, del ritorno del Re. Dalla Francia post ’89 all’Italia post-fascista. Non fecero forse la stessa scelta i “profughi” del fascismo nell’immediato dopo-guerra? Prima “trattarono” il loro voto in cambio dell’amnistia voluta da Togliatti, nel referendum tra Monarchia e Repubblica, scegliendo quest’ultima. Avevano tante ragioni per farlo, certo, non ultime la continuità finale della forma repubblicana con la Rsi e l’odio contro Casa Savoia. Ma con quella scelta e poi con la nascita di una forza politica, il Msi, che si misurò subito – impensabile – nelle elezioni politiche del 1948 (oltre mezzo milione di voti, 6 deputati e 1 senatore) scelsero il terreno del suffragio popolare, non quella di un nuovo duce, della dittatura, della soppressione delle libertà democratiche. Una scelta che segnò per sempre, positivamente, il cammino della destra italiana fino al governo del Paese. Da quel momento l’articolo 1 della Costituzione “la sovranità appartiene al popolo”, è stata per la destra politica non solo una opzione irreversibile, ma una scelta etica e culturale, una costituency morale: una visione della società e dello Stato non scindibile dalla sua identità. In tal senso si può parlare, a ragione, di un “patriottismo costituzionale” della destra. Quando poi nel 1953, Alcide De Gasperi fece approvare – con notevoli forzature parlamentari e istituzionali – la famigerata “legge truffa” che dava un premio di maggioranza alla coalizione che avesse superato il 50 per cento dei voti, missini e comunisti scatenarono, fianco a fianco, una durissima battaglia, in Parlamento e nelle piazze, contro la legge. Nelle elezioni nazionali, che si tennero in quell’anno, il premio di maggioranza non scattò. Furono determinanti i voti raccolti dal Movimento sociale italiano: alla Camera 1.582.154, il 5,84% e 29 seggi; al Senato 1.473.645, il 6,07%, 9 seggi. A pochi anni dalla fine della guerra, Togliatti riconobbe ai post-fascisti il contributo che diedero in quell’occasione perché il voto popolare non venisse stravolto da un premio che – intendiamoci – era molto meno traumatico e distorsivo di quello dell’Italicum: per conseguire il 65% dei seggi la coalizione avrebbe dovuto comunque acquisire oltre metà dei suffragi elettorali. Lo schieramento guidato dalla Dc si fermò al 49,2%. E fu la fine politica di De Gasperi.
Cosa difese allora la Destra? Il suffragio universale. E la sovranità popolare, nella declinazione dell’uguaglianza – ma guardate un po’ – dei voti espressi. Contro il privilegio riconosciuto ai voti dati a un partito o a uno schieramento vincente di “pesare” più di quelli dati ad altre forze e coalizioni politiche.
Crediamo che gli elettori di destra abbiano votato, quasi tutti, No nel referendum per la stessa ragione: la difesa del voto e della sovranità del popolo. La quale non dovrebbe avere bisogno di tutele, tanto è legata all’idea di democrazia politica. E invece no.
Senato non elettivo firmato dal Venerabile: verso l’abolizione del suffragio universale
La proposta di sottrarre ai cittadini la loro sovranità nella formazione di una delle due Camere – il Senato – non poteva passare nell’elettorato di destra. A maggior ragione perché nella riforma non era previsto il passaggio dal bicameralismo al monocameralismo, ma la conservazione del Senato, pur trasformato in Senato delle Autonomie. Un’istituzione però non più eletta dai cittadini, ma nominata da una parte della “casta politica”: consiglieri regionali e sindaci. Un modello di Senato immaginato da Licio Gelli nel suo Piano di Rinascita Democratica: “di rappresentanza di secondo grado, regionale” ottenuto “diminuendo a 250 il numero dei senatori ed elevando da 5 a 25 quello dei senatori a vita di
nomina presidenziale”.
Agghiacciante coincidenza? Davvero? E da quale altro ordinamento istituzionale, la ministra Boschi ha preso i 21 (troppo simili ai 25 “gelliani”!) senatori a vita che c’erano nel suo progetto originario poi cancellati in tutta fretta? Da dove? Il tutto è suonato intollerabile al “popolo di destra”. Troppo urticante per la sensibilità di “movimento” – o se si vuole “populista” – che la destra della Meloni ha oggi assunto nel network delle nuove destre in Europa.
Al di là dei contenuti della “riforma”, gli italiani di destra hanno visto in pericolo lo stesso principio del suffragio universale. E non a torto. Affatto. Giorgio Napolitano, che come Presidente della Repubblica ha custodito per quasi dieci anni la nostra Costituzione, ha detto:”La vittoria di Trump è fra gli eventi più sconvolgenti della storia della democrazia europea e americana, e del suffragio universale che non è sempre stata una storia di avanzamento… Ma anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo”. Incredibile, ma vero. È lo stesso Napolitano considerato come il vero padre della riforma bocciata dal referendum. E che in queste ore si è chiuso in un dispettoso silenzio. Che conferma il suo recente giudizio nei confronti del voto popolare. Peraltro, uno degli aedi del renzismo, che si fa passare per fine analista nei salotti televisivi, Fabrizio Rondolino, lo dice ancora più chiaro:”Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà una occidentale”. Una linea di pensiero sostenuta anche da Massimo Gramellini, vicedirettore progress della Stampa: “Dirò una cosa aristocratica solo in apparenza. Neppure le sacrosante primarie bastano a garantire la selezione dei migliori. Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? E adesso lapidatemi pure”. Insomma, a sinistra si fa strada la tesi di cancellare il suffragio universale: un obiettivo ostacolo alla globalizzazione e alle sue esigenze
Cessioni di sovranità e poteri forti
Un’ispirazione che la riforma aveva recepito anche laddove “cedeva” quote di sovranità all’Ue. Illuminante l’articolo 117 della mancata riforma che rinchiude la potestà legislativa dentro la gabbia dei “vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. È così l’articolo 119 che avrebbe costituzionalizzato “l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. Un altro trasferimento di sovranità dai rappresentanti eletti dal popolo a burocrazie europee non elette ed estranee al sentimento popolare. Aggiungeteci tutti i tentativi “esterni” di condizionare il voto pro riforma da parte di soggetti che non avevano titolo ad esprimersi: dalle banche d’affari a uomini-Ue, da governi stranieri ad agenzie di rating, alla stampa estera. In cima ai cosiddetti “poteri forti” c’è JP Morgan. Guardate un po’ cosa scrive la società finanziaria newyorkese nota per la gigantesca truffa dei mutui subprime: «I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».
Chiaro, no? Tanto chiaro che, dinanzi a questi attentati alla sovranità nazionale e alla libertà di voto, gli italiani di destra sono andati in massa a votare No. In nome di un’apparente ironia della Storia e di un’eterogenesi dei fini. In realtà hanno seguito il filo di una cultura politica che viene da lontano. Che coincide con la lettura “populista” della società contemporanea.