Sul “suo” 40 per cento di “sì” Renzi rilegga la storia del referendum del ’46

8 Dic 2016 17:30 - di Lando Chiarini

Sconcerta la pretesa di Matteo Renzi di intestarsi quel 40 per cento raccolti dal “sì” al referendum confermativo della riforma costituzionale. Più che una clamorosa sgrammaticatura politica, è la conferma che la personalizzazione della campagna elettorale non è stata una “voce dal sen fuggita” bensì una precisa strategia finalizzata a trasformare il voto sulla riforma in un plebiscito personale. Ma al di là di questo, è il calcolo di Renzi ad apparire del tutto sballato. Primo perché in quella percentuale c’è un’aliquota non trascurabile di consensi ispirati dal merito della riforma e poi perché un conto è votare un quesito referendario altro è votare per un partito.

Nel ’46, per il re votarono 11 milioni: nel ’48, per il partito monarchico solo 700mila

È la storia ad insegnarlo: i più anziani ricorderanno certamente che neppure uno dei circa 11 milioni di voti conquistati dalla monarchia al referendum istituzionale del 1946 premiò il partito monarchico alle elezioni politiche di due anni dopo. E parliamo di un referendum lacerante e drammatico, calato in un clima carico di passioni e di rancori su una nazione martoriata da una sconfitta militare e da due anni di guerra civile. Eppure, nel giro di soli due anni, la stragrande maggioranza di quei voti espressi in favore della permanenza del re al Quirinale andò a gonfiare le vele della Dc, partito apertamente schierato per la repubblica. È vero che il presente non è mai la fotocopia del passato, ma è altrettanto vero che la politica non può ignorare le lezioni della storia, pena il suo affogare in un presentismo senza rimedio e refrattario ad ogni memoria. La sortita di Renzi sul “suo” 40 per cento ne è un esempio. Intendiamoci: l’ex-premier è padronissimo di pensarla come vuole. Lo è un po’ meno se i suoi pur legittimi propositi di rivincita espongono la nazione al caos.

Renzi rischia di portare l’Italia nel caos

Un leader saggio sa interrogare il passato per trarne suggerimenti e indicazioni per il presente. Ci sarà un motivo se a distanza di millenni gli strateghi militari ancora studiano Sun Tzu e la sua Arte della guerra. A maggior ragione dovrebbero farlo i governanti visto che von Clausewitz definì la guerra come “la continuazione della politica con altri mezzi”. Se a un generale è ancora oggi richiesto di conoscere le tattiche militari di Giulio Cesare, nonostante droni e armi sofisticatissime, da Renzi è giusto attendersi almeno la conoscenza delle tappe fondamentali che hanno scandito la vita della nostra comunità nazionale. È proprio sull’atteggiamento verso la storia, del resto, che passa il confine che distingue gli avventurieri dagli statisti: i primi la ignorano, i secondi la scrivono.

 

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