Dalla Libia di Haftar l’Italia ha sbagliato tutto e ha preso solo sberle

25 Gen 2017 12:35 - di Alberto Cardillo

Dal 2011 la questione libica rappresenta una sorta di lunga partita scacchi. Una partita dove l’Italia ha sbagliato tutte le sue mosse. Le vicende che portarono al sostegno italiano – obtorto collo – alla deposizione di Gheddafi sono arcinote a tutti, e più o meno tutti hanno riconosciuto tutti l’errore di seguire Sarkozy in quella che fu nient’altro che una guerra d’espansione francese.

Cinque anni di caos totale in Libia

Dopo la deposizione di Gheddafi e la lunga, lunghissima crisi conseguente, l’Italia non solo non è stata in grado di far valere i propri interessi -vedi rapporti commerciali e immigrazione-, ma non è riuscita a porre le condizioni per far valere la propria influenza sulla formazione di una nuova autorità statale libica. Cinque anni il caos totale hanno portato alla formazione di due governi, uno a Tripoli, sotto la guida di Fayez Al Serraj -sostenuto dall’Onu e dall’Italia-, uno a Tobruk, guidato dal generalissimo Khalifa Haftar, sostenuto dall’Egitto e soprattutto dalla Russia.

I due governi contrapposti

Questi due governi, dell’est e dell’ovest, si contendono la sovranità territoriale della Libia contro l’Isis, che considera l’ex colonia italiana parte integrante del proprio califfato. A complicare il quadro c’è la totale confusione che regna a Tripoli, dove Al Serraj -piazzato lì anche da noi italiani- controlla solo una parte della capitale. Qualche giorno fa l’ultimo golpe dell’ex primo ministro libico Khalifa Ghwell ha riprodotto per le strade di Tripoli le solite scene ormai familiari da anni: spari, urla, miliziani a tutta velocità sui pick-up diventati simbolo delle guerre post-primavere arabe. Il golpe, tuttavia, non avrebbe avuto alcun esito, nonostante siano stati occupati cinque ministeri. Effettivamente, se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere: come si fa un colpo di Stato se di fatto un governo operante non esiste?

Con chi è schierata l’Italia

Sin dal primo giorno, da quando Al Serraj sbarcò a Tripoli a bordo di un improbabile gommone, la debolezza del suo governo fu palpabile. Ma gli esperti di foreign affairs occidentali sono ormai da anni famosi per capirci poco o nulla sui movimenti interni dei paesi africani, mediorientali e musulmani in genere. Adesso in Libia tutti sanno che non si tratta più di capire se Serraj non ce la farà a rimanere in sella, ma fino a quando durerà l’agonia del suo disastroso esecutivo fantasma. In questo clima l’Italia ha deciso di riaprire la propria ambasciata in Libia, a Tripoli. «L’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata», così si è espresso qualche giorno fa il generale Haftar intervistato da Il Corriere della Sera. Come dargli torto?

Gli esportatori di democrazia

Sarà pure antipatico e vestito in divisa, proprio come i dittatori che gli “esportatori di democrazia” hanno rovesciato da Saddam in poi, però, ad oggi, Haftar è l’unico ad aver messo ordine su una vasta porzione della Libia, l’unico a possedere un esercito degno di questo nome, l’unico ad aver attaccato sul campo l’Isis, impedendo che il terrorismo islamico conquistasse il controllo dell’intero paese. Infine, nota rilevantissima, il governo di Tobruk ha il sostegno dell’Egitto e della Russia. 

Alfano ospite dell’Annunziata…

Mentre Alfano, ospite da Lucia Annunziata, annunciava: «Dottoressa, le do una notizia: stiamo inviando aiuti umanitari al governo di Tobruk» -italico tentativo ritardatario per cercare di mettere due piedi in una scarpa-, Putin si era già posto al centro della questione, sostenendo apertamente Haftar -ospitato qualche giorno fa sulla portaerei Kuznetsov, a largo della Cirenaica- nel negoziato per la riunificazione libica. Ma non solo, le prime anticipazioni sulla linea-Trump della nuova amministrazione americana sembrano portare al sostegno del generale di Tobruk. Se così sarà Serraj, l’Italia, l’Ue e il resto della comunità internazionale, dovranno accettare un accordo alle condizioni di Haftar; e l’Italia pagherà certamente un prezzo -vedremo quanto alto- per aver piegato la propria politica estera a scarsa lungimiranza e al fallimentare politically correct del “no ai militari cattivi”.

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