Legge elettorale e democrazia: un equilibrio sempre più difficile
Teorema: “Un sistema elettorale può definirsi perfetto quando consente una razionale rappresentanza di tutte le forze politiche in competizione, purché raggiungano il quorum minimo necessario all’assegnazione di almeno un seggio”. Dogma: “La natura umana, anche nelle democrazie più solide, non consente la stesura di un sistema elettorale perfetto”.
Teoria: “Qualsiasi sistema elettorale può essere valido per garantire una sana governabilità sol che i cittadini fossero in grado di scegliere la migliore compagine, tra quelle in competizione, tributandole un massiccio consenso”.
Legge elettorale, premesse chiare
Le premesse sono chiare e a titolo di maggiore semplificazione partiamo proprio dall’ultimo punto. Alle elezioni si presentano i seguenti partiti: “A” (programma anacronistico, velleitario, non in grado di interpretare le esigenze di una società in veloce evoluzione; candidati sicuramente animati da buona volontà, ma palesemente inadatti a governare; “B-C-D-E-F” (uniti in un listone o in una coalizione, a seconda degli obblighi imposti dalla legge elettorale vigente; programma farlocco, intriso di belle parole solo per ingannare gli elettori; soggetti ben noti per propensione truffaldina, incapacità, incultura, fedina penale sporca, collusioni con organizzazioni criminali); “G” (la crema della società civile; programma eccellente che concilia in modo ottimale la migliore tradizione con le esigenze contingenti e guarda intelligentemente al futuro; candidati degni della massima fiducia, stima e considerazione per la brillante storia personale). A prescindere dalla legge elettorale, il partito “G” ottiene il 51% dei consensi. Meglio ancora: il 60%. Problema governabilità risolto grazie al buon senso dei cittadini, che in tal modo hanno sconfitto tanto il velleitarismo del partito “A” quanto la bramosia di potere per uso personale dei partiti “B-C-D-E-F”.
Se i cittadini, però, non mostrano buon senso e fanno vincere altri, di chi è la colpa? Il primo tassello da incasellare nella complessa analisi del rapporto tra sistemi elettorali e governabilità, pertanto, trova spunto in una sequela di saggi e antichi proverbi; ne cito solo due: “Faber est suae quisque fortunae”; “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”.
Ciò premesso, siccome un parlamento ogni tanto occorre eleggerlo e i cittadini hanno l’arduo compito di provvedere a questa importante funzione, cerchiamo di individuare la soluzione ottimale, avendo ben chiaro che i partiti, fatte salve le doverose e scarne eccezioni, lungi dal pensare al bene comune, sono intenti solo a studiare complesse alchimie per tutelare se stessi.
Camera dei deputati
Le recenti decisioni della Corte Costituzionale hanno disegnato una legge elettorale che, se non proprio definibile perfetta, corregge, e non di poco, quelle schifosissime che l’hanno preceduta. Diciamo subito, quindi, che non necessita di ulteriori interventi da parte del Parlamento e può essere subito utilizzata per il
voto. Si deve essere ben consapevoli, infatti, che gli interventi di “questo” Parlamento potrebbero solo essere peggiorativi e non servirebbero certo a correggere le pur numerose distonie che ancora persistono. L’alternanza uomo-donna, per esempio, è una baggianata grossa come una montagna, che offende in primis le donne. La formazione di una lista, infatti, dovrebbe essere ancorata precipuamente a un presupposto di qualità: tra le risorse disponibili a candidarsi si scelgono le migliori. Nei collegi previsti dall’attuale legge si possono presentare fino a un massimo di nove candidati. Cosa accadrebbe se, per mera casualità, in un determinato collegio un partito potesse contare su sette risorse eccellenti dello stesso sesso? Ne dovrebbe sacrificare almeno due in ossequio a un principio che, lungi dal rappresentare una evoluzione della democrazia, ne mina fortemente le fondamenta. Ancora: immaginiamo che un gruppo di donne volesse dar vita al partito “Donne al potere per un mondo migliore”. Per quanto bislacca possa apparire l’iniziativa, sarebbe ineccepibile sul piano giuridico. Quelle donne, però, paradossalmente, sarebbero costrette a scegliere la metà dei candidati tra soggetti di sesso maschile e quindi contraddire in termini sostanziali il principio basilare del loro programma politico! Un problema di minore entità, ma pur sempre un problema, è rappresentato dalla naturale spinta ai listoni, ossia più partiti insieme in un’unica lista, per raggiungere l’agognato premio di maggioranza ottenibile solo con il 40 per cento dei consensi. L’alternativa, però, sarebbe stata ancora più nefasta. Senza premio di maggioranza, infatti, e con liste singole, si sarebbero spostate al “dopo elezioni” le trattative per formare un governo. Sappiamo bene quante schifezze compromissorie possono avvenire in siffatte circostanze. Ben vengano, dunque, il premio di maggioranza di lista e i listoni, sperando che i cittadini sappiano discernere il grano dal loglio e punire quei rassemblement troppo spregiudicati e palesemente costruiti per meri interessi di bottega. Un grave vulnus democratico, invece, è la possibilità, per il capolista, di presentarsi “fino” a dieci collegi. Dov’è la ratio di questa norma? E’ evidente l’intento di salvaguardare il “potere di scelta” del leader, che potrà decidere in tal modo anche gli eventuali eletti collocati in seconda posizione nei collegi dove si presenti e nei quali dovesse vincere. Persiste l’esautorazione del potere decisionale dei cittadini, ancorché in forma ridotta rispetto al passato, e ciò non è certo una cosa bella. Semplicemente ridicola, poi, e del tutto incomprensibile, la decisione di stabilire con un sorteggio dove debba scattare il seggio. Con il presupposto di impedire il libero arbitrio del leader, di fatto gli si è reso il favore di evitargli il risentimento del candidato penalizzato, ammesso che un leader possa preoccuparsi degli altrui risentimenti.
L’ultimo punto da prendere in considerazione è quello dello sbarramento al tre per cento. I meno giovani ricordano bene i disastri causati dal famigerato pentapartito, in virtù del potere ricattatorio di minuscole formazioni presenti nella coalizione che (mal)governava il paese. Lo sbarramento, quindi, dovrebbe servire a impedire proprio questo. Ne siamo sicuri? La storia recente ci rivela tutt’altro: lo sbarramento è servito soprattutto per favorire i grossi partiti, ai quali non interessa certo il bene del Paese. Esso, pertanto, andrebbe abolito proprio per
elevare la rappresentanza delegata ai cittadini e dare voce alle minoranze, che spesso contengono il meglio della società civile. Le vere eccellenze, infatti, provano naturale ritrosia nei confronti dei grandi partiti dediti alla “malapolitica” e consentire il loro ingresso in Parlamento sarebbe un grande bene per il Paese. E’ ben chiaro, tuttavia, che non si può chiedere ai padroni del vapore di tirarsi la zappa sui piedi e favorire l’elezione di soggetti capaci di metterli in ombra con la sola presenza, anche restando muti.
Senato della Repubblica
In primis va detto che il Senato dovrebbe essere abolito (abolito realmente, non come prevedeva la pseudoriforma di Renzi), perché le esigenze di una società moderna mal si conciliano con un sistema bicamerale. Per il momento, però, in attesa di un Parlamento capace di attuare serie riforme, dovremo eleggere ancora 315 scaldasedie ben retribuiti. La Consulta, nel 2014, varando il “Consultellum”, stabilì che Roberto Calderoli aveva pienamente ragione quando definì la legge da lui varata una “porcata”. Ora si vota con un sistema proporzionale che assegna i seggi su base regionale, in venti circoscrizioni. Per il Senato, in linea di principio, sarebbe più opportuno un sistema maggioritario con un più ampio numero di collegi, in modo da garantire una più valida rappresentanza territoriale e bilanciare armonicamente il sistema proporzionale stabilito per la Camera dei Deputati. Il maggioritario a turno unico spingerebbe i partiti a candidare risorse in grado di raccogliere il consenso degli elettori per il loro valore intrinseco, elevando in tal modo il livello della rappresentanza. In una società deideologizzata, infatti, ciò che conta è eleggere risorse capaci e oneste, indipendentemente dai partiti di appartenenza. Da condannare senza indugio, poi, le tre forme di sbarramento, che favoriscono solo i partiti maggiori. La soglia è su base regionale e prevede il 20 per cento per le coalizioni: una soglia media concepita ad arte per spingere i partiti a coalizzarsi. All’interno della coalizione accedono alla spartizione dei seggi solo le liste che superino il tre per cento: questo vuol dire che tante piccole liste serviranno solo a “portare voti” senza avere alcuna possibilità di vedere i propri candidati eletti, salvo poi essere “ripagati” in altro modo. Un partito composto da risorse eccellenti, che provi schifo per le coalizioni disponibili e intenda presentarsi da solo, deve ottenere almeno l’otto per cento per vedersi assegnati i seggi. Un vero abominio! Se prendiamo come esempio le ultime elezioni, per il Senato vi sono stati 31.751.350 voti validi. Un partito che avesse preso in ogni regione il 7,99 per cento, ossia un totale di 2.536.933 voti, non si sarebbe visto assegnato nemmeno un seggio! Con un sistema proporzionale su base nazionale ne avrebbe conquistati 26!
Questo il quadro, così come si dipana oggi, non certo idilliaco, a riprova che la strada è in salita e soprattutto ancora molto lunga.
La meta: Repubblica presidenziale
Non si tratta di volere l’uomo forte al comando, come riportato dalle cronache di queste settimane, che registrano confusamente e in modo fuorviante le reazioni di masse arrabbiate, in diversi paesi. Almeno chi scrive, consapevole di essere in buona compagnia, parla di Repubblica Presidenziale da oltre quaranta anni. Risibili, inoltre, le larvate preoccupazioni manifestate da una cospicua area di sinistra, che a parole celebra il culto della democrazia rappresentativa e nei fatti si dimostra per quello che è, come traspare ampiamente (ma non certo “totalmente”) dalle cronache quotidiane. I cittadini vanno responsabilizzati nelle scelte e peggio per loro se si lasciano incantare dagli affabulatori di turno. Oggi vediamo un’Italia devastata dalla malapolitica e inquinata nei suoi gangli vitali da soggetti che della malapolitica sono figli. La bonifica è lunga, difficile, faticosa. E’ ben chiaro, però, che se non incominciamo subito l’inversione di tendenza, il marcio distruggerà anche quel poco di buono che resta.