Lo psicologo: così aiutiamo i sopravvissuti a superare le emozioni

20 Gen 2017 13:18 - di Paolo Lami

«Scappare? E’ normale. E sopravvivere non è una colpa». Roberto Ferri, vicepresidente della Sipem, la Società italiana psicologia dell’emergenza, racconta qual’è il lavoro, spesso oscuro e misconosciuto, di chi è chiamato ad aiutare psicologicamente i sopravvissuti di una tragedia, come è quella del terremoto e della successiva slavina di detriti e neve che ha colpito l’hotel Rigopiano a Farindola. A metabolizzare il dramma. E a gestire il dolore o l’attesa di un parente che i soccorritori stanno cercando.

«L’aspetto più difficile da gestire è l’attesa, il fatto di non avere notizie – spiega lo psicologo Ferri – La paura per la sorte dei propri cari, la rabbia, l’ansia, anche il senso di colpa sono predominanti».

La prima cosa da fare, spiega l’esperto «è dare un supporto psicologico per aiutare a vivere il dolore dell’attesa, perché sapere di poter contare su una presenza qualificata aiuta notevolmente. Poi nel momento in cui ci dovesse essere il ritrovamento di un parente non in vita – sottolinea il presidente della Sipem – il supporto non sarà più solo emotivo ma anche di tipo sanitario».

Ma in che modo si può aiutare a gestire al meglio queste emozioni in una situazione di attesa così prolungata? «L’ansia, l’impotenza, la rabbia si possono manifestare anche nei confronti dei soccorritori – rivela lo psicologo – E’ legittimo provare dolore e sfogarsi e, per questo, la nostra presenza deve essere discreta. Hanno bisogno di parlare e sfogarsi quindi bisogna ascoltare ma senza essere invadenti».

Per chi sta aspettando notizie sulla sorte di un amico o di un parente «a volte le parole possono essere controproducenti. Bisogna evitare frasi stupide come “stai calmo” o “stai sereno” – raccomanda lo psicologo dell’emergenza Ferri – L’aiuto più importante rimane il gruppo. Tenersi tutto dentro senza manifestare emozioni è una difesa utile per il breve periodo ma che rischia di sfociare in crisi improvvise e in atti di autolesionismo».

Lo stesso vale per i superstiti. «Il senso di colpa per essere sopravvissuti, per avere insistito per fare quel viaggio, per essere scappato e non essere riuscito a salvare qualcuno è molto comune – spiega lo psicologo – Bisogna ricordarsi che scappare è normale e sopravvivere non è una colpa».

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