Può esistere una democrazia senza partiti? Salvo Andò parla del caso italiano

9 Feb 2017 13:37 - di Alberto Cardillo

Ormai da molti anni il sistema politico italiano è in crisi. La fiducia dei cittadini nei confronti dei politici e dei partiti è in costante calo, mentre l’antipolitica, quandanche dimostri la propria incapacità amministrativa – vedi Roma e le vicende legate a Raggi – continua a ricevere consensi da gran parte di un elettorato trasversale che altrimenti si rifugerebbe nel non voto. Le uniche forze “tradizionali” – cioè che provengono da culture politiche che hanno concorso al governo della Nazione – che resistono e che incrementano il loro consenso, sono quelle che rientrano nel polo “sovranista”, coloro che chiedono la fine questa Unione europea, dell’euro, della globalizzazione e della deregolamentazione della finanza. Ma il grande malato della democrazia italiana è “il partito” inteso come aggregazione plurale e democratica volta alla rappresentanza di diverse culture ed interessi della società. La corsa degli ultimi vent’anni al “partito di plastica” ha annullato o ridotto al lumicino ogni forma di dibattito ed organizzazione interna ai partiti, sicché non vi è più la possibilità non solo di ascoltare la gente sul territorio, ma anche di formare e selezionare nuove classi dirigenti. I leader dei partiti, complice una legge elettorale che ormai da oltre dieci anni non permette di scegliere i rappresentanti in Parlamento, hanno riempito le segreterie di yes man, ma hanno regalato all’antipolitica immense praterie. Può ancora esistere una democrazia di fatto senza partiti? Di questo ed altro abbiamo parlato con il Prof. Salvo Andò, già Rettore dell’Università Kore di Enna, ordinario di diritto pubblico, deputato e Ministro della Difesa a cavallo tra il 1992 e il 1993, gli anni caldi di tangentopoli.

Professore, finita la Prima repubblica sotto i colpi di “Mani pulite”, la speranza era quella di avere partiti puliti e aperti alla gente per bene. Evidentemente qualcosa non ha funzionato. A proposito della deriva plebiscitaria dei “partiti azienda” lei ha addirittura parlato di «caudullismo». Può esistere una democrazia senza partiti plurali? Ed inoltre, ritiene che il ritorno al proporzionale – magari con il ritorno delle preferenze – possa migliorare la situazione?

Vede, la verità è che il potere solitario del leader diventa inevitabile in partiti che sono sempre più privatizzati. Chi è proprietario del partito usa gli apparati di partito e le dirigenze come cosa propria, come se la vita del partito cominciasse e finisse con l’avvento del leader e la sua uscita di scena. Le leggi elettorali non possono mutare la natura dei partiti, né possono stravolgere le tendenze politiche degli elettori che rimangono sempre le stesse, anche quando le leggi elettorali sono radicalmente mutate, per esempio passando da un sistema maggioritario ad un sistema proporzionale. La legge elettorale è lo strumento per sua natura neutrale per convertire i voti in seggi. Può essere costrittiva finché si vuole, prevedendo soglie e premi che dovrebbero escludere alcuni attori politici e privilegiarne altri. Ma ciò vale solo per il tempo della campagna elettorale. Senza una riforma della forma di governo, per esempio prevedendo la sfiducia costruttiva, ciascuno si sente libero sin dal giorno dopo le elezioni di fare ciò che vuole, di cambiare casacca, di sfiduciare il leader sotto le cui bandiere ha militato in campagna elettorale. Nel ventennio della Seconda repubblica abbiamo avuto cinque sistemi elettorali, tendenzialmente maggioritari o proporzionali. Che cos’è cambiato? La classe politica è rimasta sempre quella. Il bipolarismo non è mai nato perché gli schieramenti politici si compongono, si ricompongono, si polverizzano. È molto più trasparente, prendendo atto di tutto ciò, che la frammentazione inevitabile del corpo elettorale ci induca ad un sistema elettorale che si limiti a fotografare tendenze degli elettori, e che faccia corrispondere, magari con qualche correttivo, la composizione del Parlamento alla struttura politica del paese.

Prof. Andò, oggi il livello di disaffezione dei cittadini nei confronti del sistema politico è ai massimi. Un recente sondaggio ha addirittura rivelato che il 67% degli italiani sarebbero favorevoli all’ascesa al governo di un “uomo forte”. Quale cura, a suo avviso, per i gravi malanni della nostra democrazia?

I partiti non sono da tempo percepiti come soggetti della trasformazione sociale, e quindi come soggetti in grado di guidare le masse verso il raggiungimento di determinati obiettivi. La società è sempre più segmentata sulla base di interessi che tendono a difendersi da sé in base alla forza che esprimono. Inoltre, ai partiti si rimprovera, a ragione, di essere afflitti più o meno tutti dagli stessi mali. Si pensi al fenomeno della corruzione. Esso nel corso degli anni ha assunto un carattere sistemico. E non si tratta di trovare risorse per il partito, se è vero che i partiti oramai fanno pochissime attività tra la gente. È emerso nel corso delle inchieste che riguardano i gruppi parlamentari – soprattutto a livello regionale – che il finanziamento ricevuto dallo Stato viene impiegato per le “spesucce” private di questo o di quel dirigente, di questo o di quel parlamentare. Se tutti i partiti accettano come inevitabile il rapporto perverso tra denaro e politica, così com’è emerso nella vicenda di mafia capitale, è ovvio che la gente non distingua più tra i partiti, non distingua più tra le diverse maggioranze. Nessuno può rivendicare il diritto alla diversità. L’alternanza da questo punto di vista non significa discontinuità nella gestione del malaffare. Comunque, non ritengo veritiero che la crisi della politica determina come conseguenza inevitabile la scelta di un “uomo della Provvidenza” a cui affidare il proprio destino. E non basta mettere i magistrati nelle giunte o negli apparati di governo per evitare che il malgoverno prevalga sul buon governo, perché spesso si tratta soltanto di pennacchi destinati ad abbellire un sistema corrotto in profondità. Non credo poi, tenuto conto del risultato del referendum costituzionale, che l’idea di un uomo solo al comando sia condivisa dalla gente. È stato questo l’argomento forte – non condiviso dal sottoscritto – di chi voleva bocciata la riforma costituzionale. Tutto lo schieramento del No ha paventato agli elettori il pericolo del potere solitario di un leader e della deriva autoritaria. Penso che non si possa fare di tutto il populismo un fascio. Vi sono forme di antidemocrazia e di contestazione della rappresentanza che possono considerarsi utili, che non mirano a creare sfiducia nella gente, ma che vogliono cambiare le cose non riconoscendosi nei tradizionali meccanismi della partecipazione politica. Vi sono cittadini che vogliono esercitare forme di vigilanza democratica anche rimanendo fuori dalle istituzioni. Dovrebbero i partiti saper utilizzare questa disponibilità a favorire il cambiamento seppure con strumenti diversi da quelli della democrazia rappresentativa, ricorrendo agli strumenti della democrazia diretta, alle class action, o sollecitando le autorità di garanzia. Si tratta di azioni che servono oggettivamente a ri-politicizzare la società, e tutto sommato a ricreare un clima di fiducia.

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